Washington e lo sguardo del giornalista

Aspettai il bagaglio seduto su una panchina in compagnia di una grassa signora nera con in testa un cappello adornato da una grossa piuma azzurra. Ci fu detto che per errore le nostre valigie si trovavano al piano sottostante e che le avremmo ricevute personalmente da un addetto incaricato a prenderle. In realtà, come scoprimmo dopo, le valigie erano state prelevate a campione, aperte e controllate per sicurezza.
Quando uscii fuori il sole era alto, l’aria fresca e frizzantina, l’ambiente tranquillo, affatto caotico, come insonorizzato dagli alberi forti e robusti tutt’attorno. I parcheggi per le auto erano vuoti, mentre taxi di compagnie e colori diversi arrivavano e partivano in grande quantità.
Presi un taxi di colore bianco. Lo guidava un indiano di ventisei anni giunto in America nel 1990 e diventato cittadino statunitense nel 2004 dopo essersi sposato con una donna del posto. Gli chiesi di parlarmi di Washington, dei suoi aspetti, della composizione etnica e delle differenze socio-economiche tra i vari distretti.
Non sembrava sapere molto anche se parlava in continuazione. Gesticolava con la mano destra e schiacciava così tanto l’acceleratore da far sentire la combustione nel motore e da forzare la marmitta a far passare gocce di benzina non bruciata.
Fuori dal finestrino un ambiente monotono di alberi e grandi insegne pubblicitarie lasciava spazio alla Dulles Access Road, una strada di blocchi di cemento divisa in quattro corsie e diretta a Washington D.C.
“Ecco, abbiamo appena passato il fiume Potomac e quindi il confine meridionale tra il Distretto Federale e lo Stato della Virginia”, disse l’indiano. A Washington l’obelisco bianco, monumento alla memoria del primo presidente George Washington, si elevava alto su tutto e tutti, obbligando anche me a sdraiarmi sul sedile posteriore del taxi per vederlo fino alla cima.
La città era una folla di delicate colline verdi simili a quelle dei campi da golf. Uomini in giacca e cravatta e donne in atelier si mischiavano a donne e uomini in bicicletta, in tenuta sportiva e in corsa. Oppure in macchina, con una mano al volante e l’altra occupata a tenere un bicchiere di carta riempito fino all’orlo da caffè long black.
“Questa è la Casa Bianca”, disse l’indiano richiamandomi sul lato sinistro della carreggiata. “Qui vivrà Barack Obama e la sua bella moglie. Le vincerà lui le elezioni”, disse sorridendo. Poi, fermatosi sulla Thomas Circle NW e guardandomi dallo specchietto retrovisore, mi invitò a raggiungere il mio albergo. La corsa in taxi era finita.
Una rotonda abbellita da fiori, statue e panchine era abitata da anatre e senzatetto. Di fronte vi era una chiesa protestante in mattoni rossi, una statua in bronzo di Martin Lutero ed edifici amministrativi di diversi stili architettonici. Poi l’albergo, il Washington Plaza Hotel: grande, bianco, a forma d’angolo retto, a pochi metri dalla Casa Bianca.
Preso possesso della stanza lasciai l’albergo alle spalle. Coi passi lunghi di chi è ansioso di arrivare e le pause di chi è avido di dettagli percorsi i trecento metri che separavano l’albergo dalla Casa Bianca, la residenza del Presidente George W. Bush.
Benché istituzionale, la zona era frequentata da numerosi barboni. Avevano tutti la pelle nera e l’aria rassegnata di chi è abituato a vivere una situazione mai cercata. Vestiti da colorati e sudici scarti d’altre vite, questi corpi apparentemente senza anima sembravano costituire un mondo sommerso, invisibile alla politica, agli impiegati statali in giacca e cravatta, ai turisti muniti di macchine fotografiche.
Non parlavano, non chiedevano nulla, nemmeno l’elemosina. Non esistevano. Rimanevano a capo chino, seduti sulle panchine dei parchi a gettare molliche di pane ad anatre e piccioni; oppure in piedi, appoggiati alle pareti delle uscite della metropolitana.
C’era anche chi camminava. Alcuni lo facevano lentamente e in silenzio, trascinandosi dietro un carrello pieno di borse di plastica, abiti e coperte. Altri zigzagavano l’ampiezza del marciapiede borbottando qualcosa, ma erano pochi quelli che raggiungevano il perimetro esterno della Casa Bianca.
Da uno degli angoli de Lafayette Square, una piccola piazza alberata che fa da anticamera alla Casa Bianca, era possibile vedere la punta dell’obelisco alzarsi sulla casa presidenziale. Lì, accanto ad un blocco di marmo su cui un gruppo di soldati in memoria della Battaglia di Saratoga stava immobilizzato nell’acciaio, Jerry, un afro-americano di 45 anni sedeva sul marciapiede seguendo con lo sguardo le persone passare.
Appena sbarbato nel bagno di un garage di proprietà di un suo amico, Jerry raccontò un po’ di sé. Figlio unico di un ex operaio e di una casalinga che per arrotondare i guadagni del marito sistemava i giardini dei vicini, Jerry viveva da solo da quasi 20 anni. “Ero ancora un giovanotto quando entrambi i miei genitori morirono – afferma strofinando le mani ai jeans. Morirono di cancro, uno dopo l’altro, come le mosche”.
Da allora per Jerry la vita fu in salita. Perse la casa dei genitori a Chillum, un sobborgo alla periferia settentrionale di Washington. “Non sapevo come pagare il mutuo poiché mi risultò impossibile trovare un lavoro che mi permettesse di farlo”, continuò senza cambiare tono della voce. Poi fu sfrattato ed iniziò a vivere per strada. “Allora ero uno dei pochi – disse – ma oggi sono solo uno dei tanti. Da qualche anno a questa parte persone di ogni età, religione e colore della pelle perde lavoro, casa e famiglia”.
Nella piazza nemmeno l’ombra di un barbone. Secondo Jerry in quel perimetro devono starci solo giovani in bicicletta, turisti con macchine fotografiche e agenti dei servizi di sicurezza vestiti in borghese. La Casa Bianca si ergeva fiera e umile al tempo stesso, in contrasto con l’intensità del verde del giardino tutto intorno. Quel giorno tutto era addobbato da centinaia di bandiere statunitensi e vaticane. In quei momenti, tra le pareti della Presidential Mansion, il Presidente Bush ed i suoi ministri incontravano Papa Benedetto XVI, giunto negli USA quella mattina stessa per la sua prima visita da pontefice.
Sulla Pennsylvania Avenue vi erano anche tre pacifisti, una donna e due uomini. Stavano accampati in tenda, circondati da cartelloni, manifesti, bandiere, fotografie e turisti curiosi. Non protestavano in modo convenzionale, si limitavano ad essere lì, presenti, alloggiati in modo precario di fronte l’edificio politico più rappresentativo.
Ogni tanto allungavano l’indice ed il medio in segno di vittoria, oppure si lasciavano a qualche rapido slogan: “No al nucleare!”, “La Corea è solo una!”, “No alla guerra!”. Man mano che si liberavano dai turisti asiatici li intervistai. Più che manifestanti mi sembrarono attrazioni turistiche di un’America che accetta contestatori sulla soglia della Casa Bianca ma si rifiuta di vedere la disperazione di centinaia di migliaia di persone costrette a vivere per strada.
Tratto da “Diario di un giornalista per la prima volta ufficiale”
Italia e Stati Uniti d’America
Marzo-Maggio 2008
Il testo contnuto in questo post fa parte della tesi di laurea di Alessandro Di Maio dal titolo "USA 2008: elezioni primarie e giovani americani" ed è stato per la prima volta pubblicato su Alexander Platz Blog il 23 Dicembre 2008