Ritorno a Dunaújváros
L’idea era quella di tornare a Dunaújváros e rimanerci un giorno. Ero convinto che la neve avrebbe dato alla città un aspetto diverso da quello che avevo conosciuto in autunno. Per me la città di Dunaújváros era il primo contatto con un mondo sepolto dalla Storia, l’esempio di cosa aveva fatto il socialismo dell’Europa centro-orientale.
Centrale geograficamente e nella storia, Dunaújváros rappresentava lo stereotipo di una città di stampo sovietico: neve, freddo, Danubio, industrie pesanti, ciminiere fumanti, casermoni prefabbricati, luoghi ricreativi ancora detti “del popolo”, c’era tutto il necessario.
Ci arrivai in auto guidando lentamente per non scivolare sulla strada ghiacciata. Mi ospitò un’anziana signora, parente di una mia amica ungherese. Era un piccolissimo ma accogliente appartamento sulla Barátság Út, la Via dell’Amicizia.
Il palazzo era un piccolo edificio di architettura socialista. Distava pochi metri dalla riva del Danubio ed aveva un citofono completamente arrugginito e non funzionante. Il palazzo ospitava sedici famiglie, quattro per ognuno dei suoi quattro piani. Esso era identico ad altri venti edifici disposti a schiera uno dopo l’altro sulla stessa strada.
L’arredamento era vecchio. Alcuni mobili puzzavano di polvere. Era un mobilio casalingo tipico degli anni del boom economico ungherese avvenuto in epoca socialista, subito dopo la Rivoluzione del 1956.
La signora mi offrì una bottiglietta di gassosa. Per aprirla usò un apribottiglie in metallo. Su di esso c’era una scritta incisa sul metallo. Diceva “8 Forints” e stava a significare che quel oggetto era stato prodotto dal popolo e come tale venduto sempre e ovunque allo stesso prezzo.
Se l’idea era quella di rimanere un giorno a Dunaújváros per poi affittare una macchina e andare verso sud fino ad oltrepassare il confine con la Serbia e giungere a Subotica, la realtà si dimostrò ben diversa. I dolori al tendine d’Achille e la bassissima temperatura (-15°C) mi impedirono di realizzare l’idea del viaggio verso sud.
Fui costretto a rimanere nell’ex città di Stalin per ben due notti e tre giorni, durante i quali visitai il porto industriale, la banchina del Danubio, il cinema, l’ospedale, il teatro, il centro sportivo, il Luna Park, le scuole della città, la stazione centrale degli autobus, i viali affiancati da enormi palazzi rettangolari, il lago ghiacciato della città ed il suo miglior ristorante.
Tutto era opaco ed affascinante. Camminavo nella storia, in quella linea temporale di cui nessun libro di storia è privo. A Dunaújváros mi sentivo come si sente l’amante della Storia per la prima volta al Colosseo o al Foro Romano.
Mi accorsi che la città dipendeva ancora in buona parte dall’industria pesante, dalla gigantesca Dunaferr. Dunaújváros era completamente sotto la neve. Dalle ciminiere della grande fabbrica usciva un fumo bianco e denso. Il Luna Park era come abbandonato, mentre le granitiche statue d’acciaio erano vestite di bianco sulle spalle e sui berretti.
Lasciando i casermoni socialisti della parte nuova della città si giunge a Dunapentele, la parte vecchia della città. Qui non ci sono prefabbricati o palazzoni grigi, solo antiche villette unifamiliari di origine agricola, tra cui svettava una chiesa (l’unica della città) ed un McDonald’s. In quella città non manca nulla, nemmeno l’evidenza delle forzature politico-economiche e socio-culturali degli anni passati.
Tratto da "Diario del viaggio dei confini orientali"
Dicembre 2007-Gennaio 2008
Questo post è stato pubblicato per la prima volta su Alexander Platz Blog l’8 Aprile 2008