25.10.2015 Alessandro Di Maio

La trasformazione della penisola del Sinai

Un pugno di soldati, un blindato, una strada dritta. Il deserto è tutt’intorno, silenzioso, buio, freddo. Siedo sull’asfalto di un checkpoint dell’esercito egiziano, uno dei tanti che il governo ha disposto lungo la strada principale che attraversa il centro della Penisola del Sinai. È quasi l’alba di un giorno di settembre iniziato al Cairo e destinato a terminarsi a Gerusalemme.

E’ quasi un mese che viaggio per l’Africa del Nord in cerca di elementi utili per la mia ricerca, persone interessanti da intervistare, eventi da osservare. So che il viaggio sta per finire e che presto dovrò sbobinare ore di registrazione, selezionare foto e video, riorganizzare tutto il materiale testuale raccolto. Ci penso con un po’ di sgomento fino a quando un grido mi riporta alla fredda realtà di quel posto di blocco sgangherato e buio.

Un soldato mi chiede di alzarmi per mostrargli il passaporto. Eseguo. Le sue dita sfogliano ogni pagina e, come accade in circostanze simili in paesi arabi, sento di dover giustificare i visti israeliani. Questa volta non è necessario, a lui non interessano. Mi restituisce il passaporto. Mentre ora controlla il mio zaino, osservo i suoi camerati fumare e scaldarsi al fuoco. Sono giovani, magri, all’apparenza non veterani.

Il soldato passa a ispezionare il ragazzo seduto accanto a me, anche lui a terra, tra la parte asfaltata della strada e quella piena di erbacce e rifiuti. È un beduino; non ricordo il suo nome ma so che vive poco a nord di Hasna, nella parte centro-settentrionale della penisola. Il ragazzo viaggia con un uomo più anziano, forse suo padre, che siede alla sua destra. I due non hanno valigie o zaini, ma due semplici sacche di tela bianca. Si alzano per mostrare i documenti. Il soldato si allontana con le loro carte d’identità in mano, ma torna pochi minuti dopo in compagnia di altri tre uomini: due sono armati, l’altro, forse il più anziano in grado, è disarmato e vestito in borghese. È lui a fare le domande. Li ascolto.

Parlano un arabo che non capisco. I toni e i modi usati dal militare sembrano assai duri, mentre a stento riesco a sentire le risposte dei due beduini. Nel frattempo uno dei quattro militari svuota per terra una delle sacche. È una scena triste, la cui ingiustizia è moltiplicata dalla semplicità degli oggetti messi in mostra: alcune paia di scarpe, delle cinture, dei pantaloni, una giacca pesante, delle foglie di spezie ancora fresche, un carica-batteria per cellulare, una penna.

Come in un rito in cui tutti sanno cosa succederà il momento dopo, anche la seconda sacca, quella del presunto padre, è svuotata per terra nel silenzio dei due beduini e dei militari, nel silenzio mio e di quello degli altri presenti - stranieri e locali che come me sono stati prelevati dalla corriera che dal Cairo porta al Mar Rosso.

Trascinati nello stretto spazio tra il blindato e la tettoia di lamiera che di giorno protegge i soldati dai raggi del sole, i due beduini scompaiono dalla mia visuale per tornare sanguinanti dieci minuti dopo a raccogliere la loro roba e rimetterla dentro i sacchi.

Mentre il sole rischiara e il traffico autostradale aumenta, rifletto sul trattamento riservato a quei due beduini. Li guardo raccogliere la loro miseria, muti sì, ma precisi nei movimenti e fieri nello sguardo. È proprio con ingiustizie come questa che l’Egitto ha progressivamente perso questa straordinaria, strategica e potenzialmente ricca regione chiamata Sinai, terra di mezzo tra Africa e Asia. Decenni di politiche sbagliate e progetti economici centralizzati hanno allontanato i cuori della popolazione beduina locale, convincendola che nulla di buono potrà mai venire dal Cairo.

   

I beduini, e non solo quelli egiziani, sono sempre stati refrattari a qualsiasi potere esterno, raramente disposti ad accettare regole distinte da quelle della loro compagine tribale; e quando l’hanno fatto – nel caso dell’Islam, per esempio – si sono limitati alle regole principali, preferendo alle rimanenti quelle preislamiche che da sempre caratterizzano le genti del deserto.

A parte questa caratteristica ‘naturale’ della popolazione beduina, oggi la distanza tra il Cairo e gli autoctoni del Sinai può essere spiegata da alcuni fattori: a) la politica di Gamal Abdel Nasser; b) il centralismo del periodo di Mubarak; c) e la smilitarizzazione della penisola.

Il presidente Gamal Abdel Nasser (1956-1970), nazionalista e Pan-Arabista, fu probabilmente la più grande rovina egiziana contemporanea. Il forte carisma, la retorica anti-coloniale e la nazionalizzazione del Canal di Suez furono probabilmente gli unici aspetti positivi di questa importante e nota figura politica. Abbagliato dalla volontà di potenza e dalla lotta a Israele, Nasser tralasciò lo sviluppo sociale ed economico del Paese, perseguendo esclusivamente politiche di grandezza regionale e fallimentari attività militari.

Venendo meno alle necessità di riforme sociali ed economiche assolutamente cruciali in quegli anni, Nasser minò il futuro dell’Egitto sciupandone l’enorme potenzialità e avviando il progressivo declassamento da primo Paese arabo a Stato inefficiente, non competitivo, sovrappopolato e con larghissime sacche di povertà.

La sua pochezza politica escluse la società e l’economia egiziana dall’idea d’interesse nazionale. Questa grave mancanza fu la più grande occasione perduta per lo sviluppo del paese e della Penisola del Sinai. Per Nasser il deserto del Sinai non fu altro che una finestra attraverso cui intraprendere nuove azioni militari contro Israele e influenzare gli altri paesi arabi.

Il secondo importante fattore fu certamente rappresentato dalla politica economica centralistica del periodo di Hosni Mubarak (1981-2011), basata sullo sfruttamento dei pozzi petroliferi e dei giacimenti di gas e sullo sviluppo del turismo di massa.

Viaggiando lungo la costa sul Golfo di Suez è possibile vedere la fila chilometrica di petroliere e portacontainer in attesa di attraversare il Canale di Suez. Se si considera il numero medio di navi che ogni anno attraversano il canale (circa 25,000) e il costo medio del passaggio di un’imbarcazione (US$ 250,000), si comprende l’importanza di quest’attività. Un’energia economica che nulla lascia agli abitanti della penisola.

Tra la fila di navi per Suez e la costa arida e rossastra si riconoscono decine di pompe per l’estrazione di petrolio greggio. L’attività estrattiva del petrolio nel Sinai fu avviata dagli israeliani durante gli anni della loro occupazione, iniziata dopo la ‘Guerra dei Sei Giorni’. Dopo la graduale restituzione della penisola stabilita dagli Accordi di Camp David del 1978, il governo del Cairo continuò l’attività estrattiva, investendo su nuove pompe, ricerche geologiche e trivellazioni, e garantendosi immense entrate (dal Sinai provengono circa 1,5 miliardi di barili di petrolio l’anno) raramente destinate allo sviluppo della penisola.

Se dal Golfo di Suez si arriva al Mar Rosso, petroliere e trivelle lasciano spazio a villaggi turistici e alberghi. Compresa l’importanza strategica della penisola per l’industria turistica nazionale, il Cairo iniziò ad approvare colossali progetti turistici proposti da ricche corporazioni con sede al Cairo e con stretti legami con l’autorità politica. Alberghi di quattro/cinque stelle e villaggi turistici dai nomi caraibici e dagli ombrelloni fatti di foglie di palma diventarono la breve residenza di turisti occidentali arrivati in Sinai con voli diretti ed economici.

Costruite tra il blu del mare e il rosso delle montagne arse dal sole, queste infrastrutture, spesso contrastanti con la povertà circostante, estromisero i beduini dalla ricca torta del turismo internazionale: pochi appalti assegnati a ditte locali, personale generalmente reclutato nell’Egitto continentale, prodotti non locali.

   

Il quadro non è tuttavia completo senza il terzo fattore: la smilitarizzazione della penisola. Benché questa sia antecedente alle politiche centralistiche di Hosni Mubarak, ne è fortemente legata.

Il trattato di pace tra Egitto e Israele realizzato nel 1979 tra il presidente Anwar Sadat e il primo ministro israeliano Menachim Begin fu indubbiamente un grande traguardo che sancì la fine delle grandi guerre arabo-israeliane e l’inizio di più attente politiche interne per entrambi i paesi.

Per evitare l’ammassamento di carri armati al confine, come in passato aveva fatto Nasser, gli israeliani chiesero che il trattato prevedesse non soltanto la restituzione progressiva della penisola ma anche l’assenza di armi pesanti e battaglioni dell’esercito egiziano. Il Cairo accettò. Da quel momento, tranne che nel Canale di Suez, la sicurezza del Sinai fu affidata agli osservatori internazionali e a piccole guarnigioni di poliziotti egiziani armati di armi leggere.

La smilitarizzazione della penisola fu una grande opportunità per lo sviluppo economico. Il Cairo continuò il lavoro degli israeliani nell’industria turistica e in quella dell’estrazione di petrolio, investendo, attraendo capitali stranieri, costruendo hubble turistici e pozzi petroliferi. Ciò che mancò fu l’integrazione della popolazione locale. Non potendo contare sul governo centrale, i beduini crearono la loro economia e lo fecero sfruttando l’assenza dello Stato nel controllo del territorio.

Un territorio vasto e dalle complesse caratteristiche geografiche come il Sinai non poteva essere controllato solo da un manipolo di uomini armati di fucili. La smilitarizzazione dovuta alle clausole di sicurezza del trattato di pace con Israele rese il Sinai terra di traffici illeciti di ogni tipo: droga, prostituzione, traffico di armi. Il Sinai divenne lo snodo mediorientale per droga e prostitute, rifornendo i mercati della regione.

Le armi non tardarono ad arrivare, dapprima quelle di piccolo calibro, funzionali ai traffici illeciti, ai sequestri e alla difesa personale; poi grandi quantità di esplosivi, mortai e razzi destinati ai gruppi palestinesi nella Striscia di Gaza e ai nuovi gruppi terroristici beduini di matrice islamista. Importante è, a questo riguardo, il trasporto di armi iraniane (razzi Fajr-5 e altro) scaricate a Port Sudan, in Sudan, e trasportate illegalmente sino alla Striscia di Gaza.

Povertà, miseria ed esclusione sociale furono i motori del risentimento dei beduini locali. Ai traffici illeciti, i gruppi criminali locali affiancarono una sempre più intensa e costante collaborazione con gruppi terroristi di matrice islamista, generalmente stranieri.

Il primo risultato di questa collaborazione fu l’attentato terroristico all’Hotel Hilton di Taba nel 2004: 34 morti, tutti civili. Gli attentatori furono palestinesi, il movente fu il conflitto israelo-palestinese, ma la logistica fu tutta locale.
L’anno successivo, a Sharm el-Sheikh, la collaborazione fu con il gruppo qaedista delle Brigate Abdullah Azzam: 70 morti. Nel 2006, nella cittadina balneare di Dahab, collaborarono con il Movimento Monoteismo e Jihad (Jama'at al-Tawhid wal-Jihad, quella che poi sarà nota come al-Qaeda in Iraq e oggi ISIS): 23 morti.

Questo tipo di collaborazione permetteva ad al-Qaeda di colpire l’Occidente nelle figure del regime Mubarak, considerato servile nei confronti degli infedeli, e dei turisti israeliani e occidentali che fino a quegli anni riempivano i villaggi turistici della penisola. Alle bande criminali beduine, invece, la collaborazione con al-Qaeda garantiva un rafforzamento sia nei mezzi (denaro, armi, contatti) che nella politica contro il governo centrale.

   

La precarizzazione della sicurezza del Sinai divenne ancora più intollerabile con la Primavera Araba. La confusione politica successiva alla cacciata di Mubarak permise la proliferazione di gruppi terroristici di matrice islamista, non più esclusivamente stranieri ma formati da beduini locali e caratterizzati da finalità e strategie strettamente legate al Sinai.

Gruppi jihadisti come l’Ansar Bait al-Maqdis, per citare il più importante, hanno più volte lanciato razzi contro Israele e Giordania e distrutto il gasdotto a questi diretto, attaccato soldati dell’esercito egiziano, realizzato attentati terroristici contro basi dell’esercito egiziano.

Sia durante la presidenza di Mohamed Mursi che dopo il colpo di stato di Abdel Fattah al-Sisi, il governo ha reagito con operazioni militari contro questo nuovo tipo d’insorgenza jihadista. Per farlo è stato necessario ottenere due volte – prima con Mursi e poi con al-Sisi - il consenso di Israele alla sospensione temporanea delle clausole sulla smilitarizzazione del Sinai.

Tuttavia, nonostante la recente risposta del governo, la situazione nella Penisola del Sinai rimane assai precaria. I vari gruppi jihadisti hanno stretto alleanza tra loro, dichiarandosi parte dello Stato Islamico (ISIS) e costituendo così una forza chiamata Wilayah Sayna (Provincia di Sinai) assai temibile anche per l’adozione di tecniche di combattimento proprie dell’ISIS: attacchi suicidi realizzati simultaneamente contro diversi obiettivi e protetti alle spalle dal fuoco diretto di armi leggere e mortai.

A Luglio del 2015, sulla costa mediterranea del Sinai, l’ISIS è riuscito ad affondare una piccola nave militare egiziana realizzando quella che i jihadisti hanno definitivo la prima operazione navale dello Stato Islamico - anche se l’attacco è stato realizzato dalla costa con dei razzi.

Oggi il governo egiziano è ancora una volta espressione dell’esercito. La sua sfida sarà contrastare militarmente l’ISIS in modo efficace e sviluppare la capacità politica (mancata a tutti i governi passati) che porti ad investire nel Sinai a vantaggio della popolazione beduina locale.

Testo: Alessandro Di Maio
Foto: Reuters/Ibraheem Abu Mustafa (1) & Alessandro Di Maio (2, 3)
Gerusalemme, 25 Ottobre 2015