31.10.2013 Alessandro Di Maio

Kebab, cuore infuocato di amante

Tornato dal Kosovo e privo dell’energia e della concentrazione necessarie a completare la mia tesi, ‘nggignu (dal siciliano: inauguro) il ritorno alla scrittura (dopo mesi di viaggi, esami, paper e guasti al MacBook Pro) con un piccolo tributo a Kadir Nurman, un 80enne turco morto tre giorni fa a Berlino.

Tanti anni fa, quando vivevo in Australia, scoprii la bontà del Kebab: pezzettini di carne tenera e bruciacchiata dal fuoco, un po’ di cipolla, pomodoro e lattuga. Il tutto era abbracciato da quello che mia madre chiama the lebanese bread (il pane libanese), cioè una delle tante varianti del pane arabo introdotto in Australia proprio dalla comunità libanese degli anni ‘70.

Tornato in Sicilia, cercai il kebab per mesi e mesi, fino a trovarlo in un negozietto gestito da una famiglia tunisina e situato nei pressi della Stazione Centrale di Palermo. A parte quella piccola oasi nel deserto, i siciliani, come la maggior parte degli italiani, non conoscevano ancora il kebab.

Con l’esplosione dei voli low cost, la stabilizzazione economica di sempre più famiglie immigrate in Italia e una maggiore mobilità interna ed esterna da parte degli italiani, il Kebab conquistò rapidamente i sofisticati, e al tempo stesso semplici, gusti italici, fino al punto da trovare kebabari anche nelle piccole cittadine di provincia.

In Italia, il kebab, “il cuore infuocato d'amante” - come tempo addietro mi capitò di leggere in una poesia sufita in lingua farsi - è stato posto al centro di polemiche razziste da “luminari” e “patrioti” che, nel nome dell’italianità e dell’appartenenza alla cultura occidentale e cristiana (tutti elementi da discutere), hanno accusato il kebab di essere una delle armi musulmane per la conquista dell’Italia e dell’Europa. Un’accusa palesemente idiota, proposta da chi difende la presenza del crocefisso nelle scuole, ma non vive cristianamente come chi sulla croce è morto.

Nel 2009, tanti anni dopo la mia personale scoperta del kebab, durante un viaggio in solitaria nel deserto del Negev, tra Gerusalemme e la penisola del Sinai, iniziai a conoscere la verità su questo succulento cibo orientale. Riparato dal sole del deserto sotto il tetto di lamiera di un ristorante, ammiravo la straordinaria bellezza del Cratere di Ramon, un enorme canyon scavato dall’acqua e una volta bacino di quello che doveva essere il prolungamento del Mar Rosso attraverso il Negev e il Mar Morto.

Ordinai un kebab. Lo immaginavo enorme, caldo, ricco di carne e verdura, saporito come quelli preparati dagli antenati ottomani, che proprio vicino a Mizpe Ramon avevano costruito la città di Be’er Sheva. Il mio entusiasmo si placò quando nel piatto portatomi dal cameriere vidi dei pezzettini di carne infilzati da due diverse aste metalliche simili a spade.

Protestai in inglese: “This is not a Kebab! A Kebab looks different and it has bread all over around!” Intenzionato com’ero a spiegare le fattezze di un piatto orientale a una persona del luogo, mostravo tutta l’arroganza dei miei quasi venticinque anni. Alla fine abbassai la testa e mangiai con gusto gli spiedini di carne arrostita.

Giorni dopo, in un piccolo locale nei pressi di un’antica moschea ottomana ad Haifa, capii l’equivoco. L’ambiente era piccolo e spartano. I pochi clienti ordinavano i piatti a un uomo corpulento con il capo canuto chino sul bancone. Preparava le pietanze in modo rapido e silenzioso, pulendosi le mani con il grembiule a ogni cambio di cliente.

Accanto a lui stava un vecchio che sembrava vivesse da secoli: magro, mal vestito, con la pelle scavata dagli anni, le mani tremanti e lo sguardo perso nel secchio dei cetriolini sottaceto. Mi parve allallatu (dal siciliano: “rapito in Allah”, ossia “essere fuori dal reale per estasi religiosa”), rapito da chissà quali pensieri. Pagai e mi diede un piattino di sottaceti multicolore e un kebab, o meglio, uno shawarma enorme!

Molti di voi sapranno già la differenza ma al fine di evitare situazioni come quella da me vissuta a Mizpe Ramon vale la pena di ricordare che i termini kebab e shawarma si accavallano: da una parte ci sono degli spiedini di carne arrostita, dall’altra un insieme di carne, vegetali e salse tenute insieme dal pane, la cui forma cambia secondo le tradizioni culinarie del luogo.

Il termine kebab potrebbe derivare dall’arabo كباب (dal verbo ‘friggere’), dall’accadico kabābu oppure ancora dal siriaco kbabā/כבבא (con i significati di ‘friggere’ e ‘bruciare’) e indica gli spiedini di carne arrostita sulla brace. A Gerusalemme, come in qualsiasi altra città del Medio e Vicino Oriente arabo, la carne è infilzata da lunghe aste metalliche assai simili a spade. È probabile che sia un lascito dei soldati sassanidi (persiani), usi ad arrostire la carne usando le proprie spade durante le lunghe e fredde notti di accampamento nelle guerre contro arabi e bizantini.

La parola shawarma, invece, non ha origine araba ma deriva dal termine turco çevirme (dal verbo ‘girare’), probabilmente coniato nell’Anatolia orientale bizantina conquistata dai turchi selgiuchidi dal XI secolo. Shawarma, dunque, indica un tipo di carne cucinata esattamente come i nostri polli allo spiedo, e cioè facendola girare su un perno rotante in grado di esporre tutta la superficie al fuoco.

Ora, mentre il kebab è generalmente servito nel piatto con gli spiedini a forma di spada, lo shawarma è tagliato a pezzi dalla colonna verticale formata da strati di carne, grasso e vegetali, ed è servito nel piatto o all’interno di un pane (che può essere di varo tipo) in buona compagnia d’insalate, salse e hummus.

La confusione sta nel fatto che in turco lo shawarma prende il nome di döner kebap (döner: rotante; kebap: dalla parola kebab, ovvero friggere, arrostire, bruciare). In tutti quei paesi in cui lo shawarma è stato introdotto dalla comunità di immigrati turchi, esso ha preso il nome di döner kebap o, più semplicemente, kebab. In Italia, è vero, non è ma esistita una comunità turca così estesa come quella in Germania, ma il termine kebab ha surclassato quello arabo per mera emulazione con quanto stava accadendo negli altri paesi europei.

Scrivo tutto questo perché tre giorni fa a Berlino è morto Kadir Nurman, l’ottantenne turco emigrato in Germania all’età di ventisei anni e ritenuto l’inventore della macchina elettrica per la preparazione del döner kebap o shawarma. Non aveva brevettato l’invenzione e per questo non è morto ricco, ma l’incredibile numero di chioschetti e ristoranti che possiedono questa macchina dimostra il successo dell’invenzione che ha fatto di Nurmal il re del döner kebap/shawarma di massa.

In un’intervista di qualche anno fa, lo stesso Nurmal ammise che probabilmente la macchina era già stata inventata in qualche angolo nascosto dell’Anatolia. E in effetti, il Cağ kebabı – cioè una colonna di carne uguale a quella del döner kebap, ma disposta in orizzontale lungo un asse metallico sospeso sul fuoco e fatto girare con una manovella – è l’antenato della macchina di Nurmam.

Inoltre, nel libro “The Cambridge World History of Food” (2000) appare un riferimento a İskender Efendi. Dalla citta di Bursa, nell’ex Bithynia bizantina dove viveva, proprio a sud del Mar di Marmara, Efendi scriveva che insieme al proprio nonno, a inizio XIX secolo, ebbe l’idea di cuocere sul fuoco la carne d’agnello su un asse rotante verticale, esattamente come il sistema di oggi.

A tutto questo vorrei aggiungere una storia più volte ripetutami da una mia cara amica israeliana di fede ebraica e d’origini complicate come solo gli ebrei (e tutti quei popoli martoriati dalle persecuzioni) possono avere. Tra la prima e la seconda guerra mondiale, uno dei suoi bisnonni paterni - erede di chi nel 1492 fu cacciato dalla Spagna e si rifugiò nel più tollerante Impero Ottomano – si trasferì a Heliopolis, un quartiere del Cairo, alla ricerca di fortuna e della vibrante vita di un Egitto sotto amministrazione inglese.

Secondo la mia amica, fu qui, nella cantina di una casetta affiancata a quella del rabbino locale, che il suo bisnonno inventò la macchina elettrica per i döner kebap/shawarma. Ovviamente, come nel caso di Nurmal, anche il bisnonno ebreo non brevettò l’invenzione, “ma dopotutto – aggiunse la mia amica guardando l’orizzonte da un muretto dell’antico porto di San Giovanni d’Acri – in quegli anni al Cairo per cuocere la carne nei chioschi era più conveniente usare il fuoco e non l’elettricità”.

Un consiglio: se vi trovaste in Grecia e vi venisse voglia di un döner kebap o shawarma, ordinate un gyro! Anche qui dal termine greco γύρος che significa “che gira”. Buon appetito a tutti!

Roma, 31 Ottobre 2013
Testo: Alessandro Di Maio / @alexdimaio
Foto: Shawarma kiosk in Ramallah, Palestine. By Alessandro Di Maio