11.04.2016 Alessandro Di Maio

Israele-Palestina, verso una Terza Intifada?

Commentary scritto per ISPI, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale - È dalla fine della Seconda Intifada che ogni ciclo di violenza tra israeliani e palestinesi dà opportunità a commentatori, giornalisti e analisti di paventare l’inizio di una nuova intifada. È successo nell’estate dello scorso anno, quando giovani estremisti di entrambe le parti hanno macchiato di sangue le strade di Gerusalemme; succede adesso con quella che alcuni chiamano “l’Intifada di al-Quds”, che dall’inizio di ottobre ha già causato decine di morti e centinaia di feriti.

Il casus belli
Il casus belli di questo nuovo ciclo di violenze sarebbe, secondo le accuse ufficiali palestinesi, la violazione israeliana dello status quo che dal 1967 regola i rapporti alla Spianata delle Moschee tra le autorità musulmane e gli israeliani, proibendo qualsiasi attività di preghiera non legata alla religione islamica. Le varie fazioni palestinesi, inclusa Fatah, il partito del presidente dell’ANP Mahmoud Abbas, ritengono che il governo israeliano stia facilitando l’ingresso alla Spianata agli ebrei desiderosi di pregare dove in passato si ergeva il Tempio Ebraico di Gerusalemme e dove, dall’VIII secolo d.C., sorgono il santuario della Cupola della Roccia e la Moschea di al-Aqsa - quest’ultima considerata il terzo luogo più sacro per l’Islam dopo Mecca e Medina.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nega di voler modificare gli accordi sullo status del Monte del Tempio (o al-Harem al-Sharif, com’è noto il sito ai musulmani) ma benché non vi siano dati precisi, è innegabile che negli ultimi anni siano aumentate le visite con scorta armata di ebrei religiosi e rappresentati della destra-religiosa israeliana.

Se il presidente Abbas - l’anima più moderata del panorama politico palestinese - si è sempre espresso con toni accesi contro le visite dei religiosi di fede ebraica, Hamas, l’organizzazione terroristica islamista che governa la Striscia di Gaza e che si è recentemente rafforzata in Cisgiordania, l’ha superato, aizzando i palestinesi all’odio contro gli ebrei ed esortandoli alla violenza indiscriminata per la liberazione di al-Aqsa, di al-Quds e di tutta la Palestina.

L’escalation
La tensione è salita quest’estate, prima con l’irruzione dell’esercito presso la moschea di al-Aqsa, dove un gruppo di shebab aveva stoccato pietre, spranghe e petardi da usare contro i pellegrini ebrei che nel giorno di Tisha BeAv (ricordo della distruzione del tempio) sarebbero saliti alla Spianata; poi con l’uccisione di una famiglia palestinese per mano di un gruppo di terroristi israeliani in Cisgiordania.

Il livello di violenza è salito ulteriormente dopo il discorso tenuto da Mahmoud Abbas all’Assemblea delle Nazioni Unite il 30 Settembre. A New York il presidente palestinese ha denunciato la violazione dello status quo e dichiarato di essere intenzionato a non rispettare più gli Accordi di Oslo e a sospendere tutte le collaborazioni (economiche e di sicurezza) con Israele.

Da allora gli scontri si sono allargati ai quartieri arabi di Gerusalemme Est, alla Cisgiordania e ad alcuni villaggi palestinesi in Israele. Armati di sassi, molotov e fuochi artificiali, i palestinesi hanno attaccato colonie israeliane e checkpoint. I soldati israeliani hanno risposto con l’uso di armi e tecniche anti-sommossa, ma anche con agenti sotto copertura infiltrati tra i palestinesi e munizioni vere che hanno causato decine di morti e molti feriti.

Agli scontri si sono aggiunti numerosi attentati terroristici contro civili israeliani in Cisgiordania e nelle maggiori città israeliane. Armati di coltello, giovani palestinesi tra i tredici e i venticinque anni si sono improvvisati terroristi, accoltellando passanti alle fermate degli autobus o per strada. In alcuni casi sono state usate delle armi da fuoco e delle automobili; in un solo caso un’autobomba, non esplosa per un malfunzionamento. Da inizio ottobre le vittime israeliane sono dieci.

Il governo Netanyahu ha risposto all’ondata di attentati terroristici chiamando alle armi una parte dei riservisti, rafforzando i pattugliamenti in Cisgiordania e affiancando i soldati alla polizia nelle aree israeliane a maggioranza araba. A Gerusalemme Est sono stati imposti nuovi posti di blocco ed è stata avviata la costruzione di una barriera temporanea tra il quartiere arabo di Jabel Mukkaber da quello ebraico di Armon HaNatziv.

Se i posti di blocco nella Città Santa appaiono controproducenti - non rendono gli israeliani più sicuri e aumentano l’ostilità della popolazione palestinese locale – ciò che sta facendo discutere sono le azioni intraprese per disincentivare nuovi attacchi terroristici: la demolizione delle case dei terroristi, il ritiro della cittadinanza israeliana o del diritto a risiedere a Gerusalemme e le esecuzioni extra-giudiziali dei terroristi sul luogo dell’attacco.

Quest’ultima misura è ritenuta particolarmente eccessiva in casi in cui l’attentatore è armato di coltello, dunque facilmente neutralizzabile con metodi non letali, arrestato ed essere giudicato in tribunale.
La situazione sta sfuggendo di mano.  Il sindaco di Gerusalemme Nir Barakat, fotografato armato per le strade della città, ha invitato chi ha esperienza di combattimento a metterla in pratica in caso di necessità. In tutto il Paese sono drammaticamente aumentare le richieste di porto d’armi e - dettati dal terrore di nuovi attentati - sono stati commessi comportamenti discriminatori nei confronti di persone dalla pelle scura, considerate possibili aggressori.

A essere terrorizzati non sono solo gli israeliani. Molti palestinesi, soprattutto quelli che vivono in Israele, temono di poter essere accusati di terrorismo, linciati o uccisi sul posto per un movimento brusco, per una banale lite o un incidente d’auto.

Un’intifada?
Stiamo davvero assistendo alla Terza Intifada? Una risposta definitiva si avrà solo quando la violenza tra le parti avrà superato il proprio culmine. Per adesso valgono due sole certezze: a) escludendo le varie guerre contro Hamas nella Striscia di Gaza, è la spirale di violenza più acuta dalle due precedenti intifade; b) è nettamente diversa da queste due.
Durante la Seconda Intifada gli attacchi terroristici furono realizzati con attentatori suicidi, pianificati dai gruppi armati appartenenti ad Hamas, Jihad Islamica e Fatah e immediatamente rivendicati dai video dei “martiri”. La nuova generazione di terroristi è invece armata di coltelli o della propria auto, non è affiliata alle organizzazioni terroristiche e pianifica gli attacchi in modo spontaneo e spesso letalmente inefficiente.
Più che per difendere al-Aqsa, questi giovani attentatori agiscono per un estremo senso di frustrazione, probabilmente dovuto all’occupazione israeliana della Cisgiordania, alle angherie subite per mano dei coloni, ai checkpoint, alla barriera di sicurezza che divide la regione, al gap socio-economico che li separa dagli israeliani e alla consapevolezza che il mondo di oggi è più interessato alla crisi siro-irachena che alla questione palestinese.

Che siano cresciuti in Israele, a Gerusalemme o nella Cisgiordania, fanno tutti parte della generazione nata dopo Accordi di Oslo: giovani che non vedono un futuro diverso dalla realtà, giovani che cercano il martirio tentando di procurare un danno alla parte che considerano artefice della loro sfortuna.
A differenza della Seconda Intifada, in cui era possibile infiltrare le organizzazioni terroristiche per indebolirle dall’interno e combatterle militarmente, il governo israeliano non può entrare nella testa di questi nuovi attentatori, non può sequestrare i coltelli e le auto a tutte le famiglie palestinesi. Per porre fine a questa nuova ed economica guerra del terrore la soluzione non è la forza ma la politica: il negoziato, la fine dell’occupazione della Cisgiordania, una soluzione per Gerusalemme, la nascita di uno Stato palestinese.

Testo di Alessandro Di Maio / Photo: EPA/MOHAMMED SABER
Commentary scritto il 19 Ottobre 2015 per ISPI, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale. Vedi qui il PDF