18.01.2011 Alessandro Di Maio

Israele, i privilegiati per fede

Dopo aver creato l’universo, il mondo e le sue creature, il settimo giorno Dio si riposò. È quanto dice la Bibbia nel Genesi, ma oggi in Israele la maggioranza degli ebrei ultraortodossi rifiuta di unirsi alla forza lavoro del Paese, per dedicare la propria vita allo studio della Torah. La loro crescita demografica e l’aumento della spesa pubblica potrebbero generare conflitti sociali e mettere a rischio lo sviluppo economico.

La questione degli ultraortodossi è delicata perché tocca i nervi più profondi della società israeliana, dallo status quo tra laici e religiosi alla politica che ha favorito il decollo economico del Paese. È un tema caldo da cui dipendono le relazioni tra i maggiori partiti laici e i piccoli partiti religiosi che costituiscono l’ago della bilancia del fragile governo di coalizione retto da Benjamin Netanyahu.

Quasi 750mila israeliani sono ebrei ultraortodossi, il 10% della popolazione totale. Uomini e donne che seguono strettamente i dettami biblici e che raramente si integrano con il resto della popolazione. Sono famiglie numerose con in media sette bambini per coppia e costituiscono il settore economicamente più povero della società israeliana; e quello in più rapida ascesa demografica.

Secondo un recente studio del Centro di Ricerca sulle Politiche Sociali Taub, il 65% degli ultraortodossi è fuori del mercato del lavoro. Non sono disoccupati, ma non interessati a trovare un impiego perché concentrati a portare avanti quello che considerano il lavoro che salverà l’ebraismo: studiare la Torah.

Per alleviare il loro stato di povertà lo Stato elargisce sussidi mensili per un totale di 250 milioni di euro l’anno, una cifra considerata non tollerabile da una fetta sempre più grande dell’opinione pubblica israeliana.

«Il problema», afferma Lior Reshef-Drei, cofondatore del partito HaSmol Leumi ed ex presidente dell’unione degli studenti dell’IDC, la più prestigiosa università privata, «è che anche se Israele non è più solo il Paese delle arance, ma un economia solida e diversificata frutto di anni di investimenti in ricerca e high-tech, non può permettersi una così alta percentuale di popolazione inattiva al lavoro e al tempo stesso pagare loro sussidi e pensioni».

Condivide la stessa linea di pensiero Stanley Fischer, governatore della Banca di Israele, che lo scorso luglio ha dichiarato di «ritenere necessario cambiare rotta per garantire stabilità e prosperità al Paese, perché la rapida crescita demografica degli ultraortodossi, il rafforzamento del loro sistema scolastico rispetto a quello nazionale laico rischiano di ridurre la forza lavoro».

L’imperativo sembrerebbe quello di portare gli ultraortodossi a lavorare. Ma come? Dan Ben-David, direttore del Taub Center ritiene che sia «una questione di incentivi al lavoro, perché trent’anni fa la percentuale di inattivi ultraortodossi era limitata al 21%, mentre oggi è tre volte tanto».

Per Reshef-Drei bisognerebbe «spezzare il circolo vizioso che allontana i giovani religiosi dalla leva militare e dalla prospettiva di un lavoro legale, per questo», continua, «bisognerebbe creare una sorta di servizio civile che sia alternativo al militare e che dia loro la possibilità di servire la patria fin da subito e di trovare un lavoro successivamente».

Consapevole degli umori dei cittadini, la scorsa settimana il governo ha approvato un decreto che limita a cinque anni il sussidio agli studenti ultraortodossi. Per alcuni è una prima risposta al problema, per altri il modo migliore per non affrontarlo «visto che», come afferma Reshef-Drei, «un decreto non è una legge formale e potrà essere abrogato senza difficoltà anche senza una maggioranza parlamentare».

Articolo pubblicato sulla versione cartacea dal quotidiano Libero il 30 Dicembre 2010.