02.01.2011 Alessandro Di Maio

Il Danubio notturno

Era notte, il silenzio totale, la Luna alta, piena, completamente bianca. Intorno a me alti alberi da taglio mangiavano il cielo scuro. Non c’era vento e l’aria era leggera, secca, fredda. Tutto era immobile, eppure tutto si muoveva.

Stavo in piedi con il solo costume a coprirmi il corpo. Contemplavo il Danubio o quel che riuscivo a vedere. Silenzioso, consapevole o meno, percorreva il suo cammino, una strada nera che separava due rive di alberi uguali.

Dagli alberi dietro di me sentii arrivare gli amici ungheresi che mi avevano portato lì. Ragazze diplomate in collegi cattolici e laureande in università cattoliche. Quando raggiunsero la riva mi salutarono, si tolsero i vestiti e si inabissarono una alla volta nelle calme acque del fiume.

Per attutire il trauma termico dell’acqua gelida con il caldo dei loro corpi, gridavano e ridevano muovendosi il più possibile. Mi chiamarono più volte, invitandomi a seguirle in acqua. Esitai, poi riempii i polmoni d’aria, mi gettai nell’acqua gelata e dura.

La mandibola iniziò a tremare e il rumore dei denti mi ricordò quando da piccolo, d’inverno, mi lasciavo asciugare da mia madre dopo la doccia. Compresi immediatamente la forza del Danubio, la corrente fluida, decisa, la capacità di attraversare paesi, di fare e distruggere isole, di creare anse e nuovi passaggi. Compresi che se dall’esterno il fiume pareva statico, dall’interno rivelava il sua moto, la sua vita, il suo rumore.

In acqua fu più facile distinguere le rive del fiume. Avevo paura di sbattere contro rocce o tronchi trasportati dalla corrente. Per questo nuotavo all’inizio nuotai come non avevo mai fatto, cercando di non allungare braccia e gambe.

Quando superai freddo e paure, iniziai a rilassarmi, lasciandomi trasportare dalla corrente, sbattendo saltuariamente i piedi per avvicinarmi all’altra sponda. Giunto al centro del fiume mi resi conto di avere ancora molto d’innanzi. Il fiume era profondo.

Quando ci avvicinammo alla riva opposta, temporeggiammo prima di abbandonare l’idilliaca placenta del fiume. Mi resi conto di essere tornato al mondo quando i miei piedi poggiarono un terreno fangoso e il collo all’altezza delle orecchie inizio a pungere per il freddo.

La corrente ci aveva spinti molto a sud e bisognava risalire a piedi la sponda raggiunta per immergersi nuovamente e guadagnare il punto di partenza con la pressione del fiume. Ci incamminammo tra la foresta nera per uno stretto sentiero di pietruzze pungenti come vetro. Sentivo i piedi dannare il peso del corpo. Ogni passo era una pietra.

Risalita una parte del Danubio giungemmo ad un piccolo molo. C’era un ferry boat ormeggiato e illuminato da una piccola luce bianca, l’unica a vista d’occhio. Tornammo a contatto con l’acqua. Fisicamente fu meno traumatico della prima volta; psicologicamente la necessità di immergersi in acque prossime allo zero fu devastante.

La seconda traversata fu lenta e delicata, come addolcita dalle musiche di Pascal Gaigne. Quando arrivammo i nostri vestiti erano ancora lì, a terra, a pochi centimetri dall’acqua immobile. Mi vestii rapidamente cercando di asciugarmi alla meglio.

Avevamo per due volte attraversato il braccio di fiume che separa i monti Pilis dall’isola di Szentendre, a circa tre chilometri nord dalla piccola cittadina di Szentendre, in un luogo chiamato Dunakanyar, che letteralmente significa “ginocchio del Danubio” o “ansa del Danubio” e che indica quella zona dell’Ungheria dove il grande fiume - dopo aver proceduto in direzione ovest-est lungo il confine ungaro-slovacco - svolta verso sud biforcandosi e formando Szentendrei-sziget, l’isola di Szentendre.

Ci avviammo verso una piccola casa in legno dove avremmo dormito per quella notte. Era una vecchia casa di villeggiatura, sopraelevata per i costanti straripamenti. Gli interni, vecchi e ben mantenuti, davano la sensazione di trovarsi in una nave.

Aprii gli occhi il mattino successivo. Dalle finestre entrava la fioca luce del primo sole. Erano le sei e mezza, in stanza ero da solo. Dal balcone giungevano delle voci, erano le ragazze. Le raggiunsi a piedi nudi che ancora ero intorpidito dal sonno.

Mi salutarono presentandomi la più ricca tavola da colazione mai vista in vita mia. Erano uscite poco prima per comprare il pane appena sfornato. Avevano imbandito la tavola di caviale, salmone, salame, miele, frutta, pancetta e spremute d’arancia, mela e pesca.


Tratto da "Diario dal paese magiaro"
Agosto-Settembre 2007 - Questo post è stato pubblicato per la prima volta su Alexander Platz Blog il 31 Ottobre 2007