03.01.2011 Alessandro Di Maio

Il cammino per raggiungere l’ambasciata USA

La mattina mi svegliavo presto per il timore di arrivare tardi in ambasciata. Mi lavavo e vestivo ponendo molta cura ad occhi, capelli, cravatta, e soprattutto al contenuto della borsa in pelle che mi portavo appresso.

Partire presto era diventato quasi un piacere: riuscivo a svegliarmi prestissimo senza essere esageratamente addormentato, riuscendo addirittura a salutare chi mi salutava e sorridere quando capitava.

Lasciato l’appartamento m’incamminavo sempre per la stazione metropolitana di San Maria del Soccorso, alle volte riuscivo a prendere anche la navetta che raccoglie i pendolari del quartiere per portarli alla stazione. Durante quelle mattine il sole rimaneva basso, coperto dagli edifici del quartiere. L’aria era fresca. Ogni tanto pioveva e il vento, gelido e duro, ossidava le mani, soprattutto quella che teneva la borsa.

Ogni mattina, svoltando il primo angolo vedevo il fruttivendolo impegnato a posizionare la frutta sui banconi esterni del negozio. Sembrava farlo senza voglia, automaticamente. I pensionati aspettavano l’autobus con il giornale aperto, le puttane tornavano alle loro case con vestiti succinti e sguardi stanchi e persi nel vuoto.

Quel quartiere era abbandonato a se stesso. I suoi edifici mi ricordavano quelli dei quartieri industriali dell’Ungheria o della Slovacchia. Erano parallelepipedi prefabbricati costruiti per i meno fortunati da quello stato sociale che dalla fine della Seconda Guerra Mondiale agli anni Ottanta trovava democristiani, comunisti e socialisti lavorare insieme per dare una casa a tutti.

Insegne fatiscenti indicavano vecchi centri operai, biblioteche, piscine e negozi oramai chiusi. Probabilmente un tempo a quel quartiere non mancava nulla, ma durante la mia permanenza un edicola e un bar dello sport mi sembrarono gli unici luoghi di vita di quella parte di quartiere. Dal bar poi uscivano solo ragazzi con le braccia tatuate, le orecchie bucate e una bottiglia di birra tra le mani.

In quelle mattine mi affezionai a due quotidiani: al Corriere della Sera (che compravo ogni mattina all’edicola della metropolitana) e alla Stampa (che mi procurava l’ambasciata). Ma leggevo quello che mi capitava a tiro, ogni tanto Il Giornale, La Repubblica, Libero e Il Manifesto.

Sul treno tra Santa Maria del Soccorso e Roma Termini ogni tanto riuscivo ad appoggiare la schiena alla parete, allora aprivo la borsa per prendere il libro della settimana. Ne leggevo per almeno venti pagine, fino a quando una voce stonata e vibrante annunciava l’arrivo alla fermata di Termini.

Il treno si svuotava ed io ero già alle scale per raggiungere la banchina metropolitana opposta da dove avrei preso il treno per Barberini. Alle volte per la folla mi toccava prendere il treno successivo, altre riuscivo a prenderlo al volo, magari spingendo un po’ per evitare di farmi troncare un braccio o una gamba dal portellone.

Sceso a Barberini sfruttavo il tempo dell’alta scala mobile che porta sulla strada per risistemare il libro e il biglietto della metro nella cartella, prendere il pass fornitomi dall’ambasciata e sistemarmi la cravatta. Poi entravo, salutavo ed iniziavo a lavorare.

Tratto da “Diario di un soggiorno romano”
Gennaio-Febbraio 2008

Questo post è stato pubblicato per la prima volta su Alexander Platz Blog il 24 Maggio 2008