17.02.2011 Alessandro Di Maio

Il mio Natale a Betlemme - Parte 2

Il telefono squilla. Tutti mi guardano, con gli occhi seguono il percorso della mia mano, dalla tasca della giubba color verde militare alla borsa con le macchine fotografiche e il telefono cellulare.

Mi alzo, mi metto in un angolo circondato da croci e sacre famiglie. Rispondo. È Luna, una giovane donna italiana conosciuta qualche mese prima, durante una fresca sera d’estate a Ramallah, dove vive da qualche anno per raffinare la propria conoscenza del mondo e della lingua araba.

La sua frase è precisa, netta, veloce: “Ci vediamo tra un’ora al Nativity Hotel”. Mi riavvicino al gruppo e parlo con Liah. Lei viene con me. Salutiamo tutti e ci dirigiamo alla stazione centrale degli autobus di Betlemme, un anonimo edificio situato all’incrocio tra la strada che circonda la parte vecchia della città e una lunga strada che scende fino al muro israeliano.

Da lì il panorama mozza il fiato. I villaggi situati sulle colline sono illuminati dalle luci intermittenti del Natale, mentre il cielo, totalmente buio privo di stelle, accoltella una Luna rossa di sangue e nasconde una stazione degli autobus deserta. Non vi è nemmeno l’ombra di un veicolo, né un essere umano, solo una scala mobile che porta al piano superiore.

Torniamo in strada. Prendiamo un taxi collettivo, una lunga Volkswaghen gialla e nera dentro cui, oltre all’autista palestinese, stavano due attivisti occidentali: una donna inglese che non faceva altro che parlare, e un uomo americano rannicchiato sulle sue proprie gambe che sembrava aver raggiunto la pace dei sensi.

Dopo due o tre chilometri di curve tra case in pietra costruite chissà come, scorgiamo l’insegna dell’Hotel. Ad attenderci c’è Antonio, anche lui amico di Luna. E’ uno scienziato napoletano che lavora a Be’er Sheva, la più grande città israeliana nel Deserto del Negev. E’ un chimico che per conto dell’Enea studia la possibilità di costruire delle particelle fotovoltaiche da materiale organico.

Antonio ha superato i trent’anni. E’ alto, ha un paio di occhialini tondi sul naso, un’ispida barba marrone che gli copre le guance e un lungo giaccone verde entro cui ripara le mani.

Camminiamo in salita su una strada bagnata dagli scarichi di acque bianche, poi svoltiamo a destra fino a trovarci di fronte alla casa dove avremmo consumato la cena di Natale, nei pressi di un istituto bancario arabo.

E’ una casa di tre piani, fatta con mattoni di pietra bianca come tutti gli edifici costruiti in Palestina dal Mandato Britannico in poi. Saliamo le scale. Antonio ci spiega che la casa appartiene a una coppia di anziani cristiani greco-ortodossi. Chiaramente palestinesi, ovviamente amici di Luna.

Quando entriamo nell’appartamento al secondo piano dell’edificio, l’accoglienza è calorosa e sincera. Sono tutti seduti in cerchio lungo il divano che occupa parte del soggiorno. Una stufa elettrica è accesa al centro della stanza, il televisore è sintonizzato su un canale religioso in lingua araba. In un angolo accanto alla finestra c’è un albero di Natale addobbato in modo semplice ed elegante.

Ci auguriamo buon Natale a vicenda. “Merry Christmas! Buon Natale!”, esclamiamo stringendoci le mani e baciandoci sulle guance. C’è Marta, una giovane operatrice umanitaria fiorentina. Ci sono Elias e Suad, i padroni di casa.

Sembra un invito a cena a casa di parenti o amici, di quelle cene che finiscono di fronte al camino giocando a carte. Il divano, i tappeti, il televisore acceso, l’albero di Natale, le fotografie di famiglia appese alle pareti, i mobili di legno antico, i vetri appannati delle finestre, tutto l’ambiente mi è famigliare.

Ci sediamo sul divano. Suad offre un bicchiere di Coca Cola e un piattino di olive nere a ciascuno di noi. “E’ per stimolare l’appetito”, dice.

Elias e Suad vivono identità che molti occidentali considerano contrapposte. Arabi palestinesi sì, ma soprattutto attenti fedeli cristiani di rito greco-ortodosso. Fuori le loro mura domestiche fanno parte della minoranza cristiana in terra palestinese, ma in casa sono protetti dalla spada di quel San Giorgio che - secondo quanto narra una leggenda - avrebbe ucciso un dragone per difendere la vita della principessa Silena, figlia di un re libico.

Per Elias e Suad il 25 dicembre è un giorno come un altro, e la ‘nostra’ notte di Natale non è altro che una normale fredda notte di dicembre. “Per noi cristiani greco-ortodossi – spiega Suad tagliando le patate sul tavolo della cucina - Gesù non è nato il 25 Dicembre, ma il 7 Gennaio”.

Differenze dovute a calendari e interpretazioni distinte che ogni dicembre danno la possibilità a quest’anziana coppia palestinese, di compiere un atto degno del più profondo spirito cristiano e della più tradizionale ospitalità araba: accogliere dei ‘detriti’ europei giunti in Medio Oriente chissà per quale ragione, e organizzare una cena di Natale per farli sentire più vicini alle loro famiglie.

Prepariamo la cena tutti insieme. Pollo arrosto, patate fritte, insalata araba, hummus, olive nere, pane. Mentre cuciniamo, beviamo un corposo vino rosso prodotto dai vicini di Elias e Sudad, un'altra famiglia di palestinesi cristiani.

In soggiorno il televisore gracchia la messa di Natale celebrata a Betlemme davanti al Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas. Non ci facciamo caso, parliamo in inglese, sovrapponendoci uno all’altro. Ogni tanto Antonio ed io ci lasciamo a commenti ed esclamazioni in napoletano e siciliano, ma è solo un attimo perché politica e religione occupano la tavola.

Elias intona un canto religioso in greco. Poi racconta della sua vita, di quando viveva con la sua famiglia in una grande casa agricola in un villaggio arabo a ovest di Gerusalemme, di quando fu costretto a lasciarla e spostarsi più a est.

Non si lascia prendere né dall’ira né dalla nostalgia. Seduto a capotavola, è calmo, freddo, diplomatico. Quando parla lui non fiata nessuno, stiamo tutti ad ascoltare.

Dice di rispettare gli israeliani “che dal niente hanno costruito uno Stato”, si lancia spesso in dure critiche contro i leader palestinesi, “ciechi e poco inclini a curare il bene comune”, ma ammette che la cosa che più detesta è l’occupazione israeliana della Cisgiordania.

“Limita il nostro movimento, ci priva delle nostre risorse, ci mantiene in povertà”, afferma. Al piano terra Elias ha un’officina per infissi. Era lì che lavorava.

“Adesso non lavoro più, non c’è domanda. La gente non ha soldi, se deve proprio comprare degli infissi, o compra quelli israeliani di produzione industriale oppure si rivolge a un artigiano palestinese e ne baratta il lavoro con alimenti, favori o quant’altro” - ammette.

Da quando non lavora più Elias è ingrassato e soffre di colesterolo, ma vive dignitosamente grazie all’aiuto economico dei figli. “A differenza dei cittadini di molti paesi e dello stesso Israele – spiega – noi palestinesi non godiamo le pensioni lavorative o di anzianità”.

Elias si alza e invita tutti a seguirlo. Solo Suad rimane seduta a tavola a intingere l’ultimo pezzo di pane nel piattino dell’hummus. Usciamo in balcone. Con un dito indica la parte bassa della finestra che collega il salotto al balcone. C’è un foro di circa un centimetro di diametro. “Questo l’ha fatto un proiettile vagante durante l’occupazione israeliana di Betlemme, dopo lo scoppio della Seconda Intifada. Il proiettile ha perforato l’infisso di metallo, ha attraversato il salotto e la cucina e si è arenato nel mobile di legno della cucina”.

George, il loro figlio più piccolo, si trovava di fronte la finestra poco prima che arrivasse il proiettile. “Lo avevo appena pregato di allontanarsi dalla finestra per evitare brutte sorprese”, dice.

Illuminato dal televisore, cerco di scorgere la traiettoria del proiettile. Mi viene un brivido: ho cenato nella linea di fuoco.

Ci risediamo a tavola, Elias appoggia una mano sulla curvatura di una bottiglia di vetro piena d’acqua e inizia a parlare di quello che ritiene uno dei problemi più gravi sofferto dai palestinesi: l’acqua.

“Il sottosuolo della Cisgiordania è pieno d’acqua, ma noi palestinesi non possiamo estrarla in quantità tali da costituire un servizio pubblico. Per questo - afferma - lo fanno gli israeliani, che vendono l’acqua all’Autorità Nazionale Palestinese che la vende a noi cittadini palestinesi”.

Secondo una ricerca pubblicata nel 2002 da Middle East Web, un sito internet israelo-palestinese, la Cisgiordania ha tre zone principali per il pompaggio dell’acqua: una si trova a nord, nella zona di Nablus e Jenin, e rifornisce le campagne dei kibbutz israeliani con 115 milioni di metri cubi d’acqua l’anno; la seconda si trova a sud-est da Gerusalemme e fornisce le colonie israeliane della Valle del Giordano e delle coste del Mar Morto e i villaggi palestinesi con rispettivamente 40 e 60 milioni di metri cubi d’acqua l’anno; la terza si trova nella Cisgiordania occidentale e rifornisce l’area di Gerusalemme e Tel-Aviv con 360 milioni di metri cubi d’acqua contro i 20 diretti nelle case dei palestinesi della Cisgiordania centrale.

Secondo B’Tselem, famoso centro d’informazione israeliana sui territori palestinesi occupati, la divisione dell’acqua tra Israele e Territori Palestinesi è “discriminatoria e ingiusta a danno dei palestinesi” e sarebbe la causa delle frequenti mancanze d’acqua nelle case cisgiordane.

“Se il consumo pro-capite israeliano di acqua è di 242 litri nelle aree urbane, nella Cisgiordania è di 73 litri a persona, e in certe aree anche di meno (37 litri nel Distretto di Tubas; 44 nel Distretto di Jenin e 56 in quello di Hebron). A causa del limitato rifornimento d’acqua, molte famiglie palestinesi sono costrette a comprare l’acqua dalle autocisterne private a un costo quadruplo”, continua B’Tselem.

“Per questo motivo tutte le case palestinesi hanno serbatoi sul tetto. Raccogliamo l’acqua per fronteggiare una probabile chiusura dei rubinetti generali”, afferma Elias versando un po’ d’acqua dentro un bicchiere.

“Visto che ci siamo – aggiunge – quando andate in bagno state attenti a come tirate lo sciacquone. Se l’acqua continua a scorrere chiamatemi, altrimenti continuerà a scorrere fin quando il serbatoio sul tetto non sarà vuoto”.