16.01.2011 Alessandro Di Maio

Il cambiamento di Barack Obama

Nell’anno delle grandi battaglie sull’ambiente e sulla sanità, la politica di Obama non brilla e la parola d’ordine che lo portò alla Casa Bianca – change – necessita di essere riempita di provvedimenti. La crisi economica ha colpito l’attività di lobbying sgonfiando i gruppi di pressione presenti a Washington. E’ il momento giusto per agire.

Change, cambiamento, è la parola che ha permesso a Barack Obama di diventare presidente degli Stati Uniti. Gli americani ed il mondo si aspettavano un netto cambio di rotta da quella che era stata la politica estera ed economica dell’amministrazione Bush. Eppure, il 2009, primo anno di governo Obama, è stato un anno senza grandi cambiamenti.

Riguardo alla politica estera, se è vero che è stato avviato il ritiro delle truppe dall’Iraq, è anche vero che Barack Obama, a cui è stato recentemente assegnato il premio Nobel per la pace “per i suoi straordinari sforzi per rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli”, pensa di inviare nuovi soldati in Afghanistan, specificando, però, che quella in Asia centrale non è una guerra americana, ma una guerra dell’interna comunità internazionale.

Sul versante economico ci sono stati segnali forti a favore di un sistema keynesiano lontano dalle estreme derive monetariste della finanza degli ultimi venti anni. Il governo ha sferrato duri attacchi ai paradisi fiscali, obbligando le banche di alcuni paesi a dichiarare i nomi dei più importanti evasori americani; ha ricapitolarizzato alcune delle banche fallite, ma nulla ha fatto nei confronti delle agenzie di rating (es. Standard & Poor’s), che hanno attribuito alte valutazioni a titoli garantiti da prestiti ipotecari poco affidabili creando di fatto la crisi economica finanziaria.

Inoltre, dopo mesi di critiche nei confronti dei manager e dei banchieri attivi beneficiari di ricchi dividendi e bonus, oggi questi sono tornati ad arricchirsi grazie al decollo – da 0.8 a 3.5 - dello spread, ovvero quel meccanismo che Keynes descrisse come la chiave che permette alle banche di produrre denaro raccogliendo il risparmio e ridistribuendolo alla società, cioè la differenza tra il tasso interbancario, cioè il costo dei prestiti tra le banche, e il tasso di interesse che queste impongono ai clienti.

Gli statunitensi che vivono in povertà sono oggi 70 milioni. Molti hanno già perso la casa e 9 milioni di essi usufruiscono dei sussidi governativi – 300 dollari al mese per circa 75 settimane. Quando questi termineranno, “se il Congresso non farà nulla, un numero ancora più grande di lavoratori disoccupati, di famiglie americane, rimarrà senza alcuna protezione perché le previsioni degli economisti e dello stesso presidente Barack Obama, dicono che la disoccupazione continuerà crescere e trovare un lavoro sarà sempre più difficile”, ha dichiarato Maurice Emsellem, funzionaria del National Employment Law Project (NELP).

Ma sul piatto vi è anche la discussa riforma sul sistema sanitario e la concertazione internazionale sui provvedimenti necessari a combattere il fenomeno del riscaldamento globale. L’amministrazione Obama potrebbe riuscire su questi due temi sfruttando la temporanea debolezza del settore lobbistico a Washington.

Recentemente il giornale Washington Post ha pubblicato i numeri dell’attività lobbistica a Washington, dai quali si riscontra che tutti i settori sono in perdita rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

Le aziende che si occupano di edilizia, difesa e agricoltura hanno tagliato i fondi utili al lobbying, facendo diminuire del 10 % i ricavi dei principali studi legali della città. “Quando non riesci a pagare gli stipendi e nessuno è disposto a concederti un prestito, tagli le spese all'attività di lobbying”, dichiara Nicholas W. Allards, dello studio legale Pattos Boggs. Ma questa non è l’unica ragione. Molte associazioni e aziende, infatti, decidono sempre più spesso di investire nella pubblicità televisiva, uno strumento che, anche se serve a fare pressioni sull’attività del Congresso, non è considerata di lobbying. Ed infine c’è l’amministrazione Obama che grazie ad una nuova normativa che limita i contatti tra le lobby e il governo, si attribuisce il merito di aver moderato il lobbismo a Washington.

Questa situazione potrebbe essere sfruttata per la realizzazione di una riforma sanitaria e per radicali interventi nel settore energetico. Benché sanità ed energia siano i settori che nel primo semestre del 2009 hanno speso di più in attività di lobbying (insieme al settore delle assciurazioni), la loro spesa ha subito una variazione in negativo - del 9,1% e del 15,9% per un totale di 22 milioni di dollari in meno - rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

Tra più di cento leader mondiali riuniti a New York City per il vertice della Nazioni Unite sul cambiamento climatico, Obama e il presidente cinese Hu Jintao erano i più importanti. Insieme, i loro paesi producono più del 40% delle emissioni di gas serra mondiali e insieme potrebbero trovare una risposta efficace ad un problema che riguarda tutto il pianeta.

Fino a questo momento USA e Cina hanno evitato Kyoto limitandosi a qualche generica dichiarazione di buoni propositi. Cina e India non possono più far finta di essere paesi arretrati che per crescere hanno la necessità di inquinare, e gli Stati Uniti d’America non sono più governati da un’amministrazione fatta di petrolieri convinta dell’inesistenza del fenomeno del riscaldamento globale. A poche settimane dal vertice internazionale di Copenaghen, Obama potrebbe definire la propria politica di cambiamento nel settore energetico, concertarla con la comunità internazionale in Danimarca e proporla a Washington sfruttando la temporanea flessione della forza delle lobby petrolifere.

Sull’altro versante, Barack Obama ha più volte dichiarato di voler attuare la riforma del sistema sanitario entro la fine del 2009 e nonostante la forte mobilitazione del Partito Repubblicano e delle compagnia assicurative, potrebbe farcela snaturando l’idea originaria, per arrivare ad un sistema di public option - cioè la possibilità di scegliere l’assistenza pubblica invece di quella privata – affiancato da una serie di provvedimenti ristrettivi nei confronti della assicurazioni (che sarebbero obbligate a non rifiutare la copertura sanitaria sulla base delle condizioni mediche preesistenti) e dei datori di lavori (obbligati a dare l’assistenza sanitaria a tutti i propri lavoratori). Ciò costituirebbe una riforma meno brillante di quella proposta negli anni novanta dall'amministrazione Clinton, ma sembrerebbe l'unica possibile adesso.

Sono passati quasi due anni dall’inizio delle primarie democratiche e un anno dalla elezione a Presidente. In entrambi i casi la parola d’ordine era cambiamento. Adesso è il momento di riempirla di fatti. E' il momento giusto per agire.

Editoriale pubblicato su LaSpecula Magazine l’11 Ottobre 2009.