18.02.2012 Alessandro Di Maio

Il barbiere di Gerusalemme

Ho chinato il capo a crocefissi, stelle di Davide e quadri della Mecca. Ogni volta con un barbiere diverso, con la speranza di un buon taglio e di una rasatura senza ferite. Da quando vivo in Medio Oriente ho conosciuto molti barbieri. Alcuni di loro mi hanno parlato in arabo, altri in ebraico, ma in genere ci incontravamo a mezza strada con l’aiuto dell’inglese.

Ognuno di loro ha rasato la mia barba e accorciato i miei capelli con modi, tecniche e risultati differenti, ma due cose li accomunavano: la rassegnazione scolpita nei loro volti per un conflitto che non vede via d’uscita, e la facilità con cui mi hanno raccontato storie, regalato emozioni, consigliato luoghi e, ahimè, procurato cicatrici.

Per un siciliano come me il barbiere non è un’istituzione indeterminata, ma “l’istituzione” che ti conosce meglio di parenti, dottore di famiglia e anagrafe. In Sicilia il barbiere è il primo a tagliarti i capelli quando, a sei anni, accompagnato ancora da tua madre o da tuo padre, vedi la tua piccola immagine riflessa allo specchio mentre sei seduto su un cuscino rigido alto mezzo metro in una poltrona posta in un angolo della bottega.

Negli anni successivi il tuo barbiere continuerà a tagliarti i capelli, osservandoti, scrutandoti, facendoti sedere sul solito cuscino rigido, fino a quando arriverà il giorno in cui, entrando nella sua bottega, lo vedrai indicarti la poltrona dei grandi, quella accanto a quell’altra, dove siede sempre il sindaco quando va a farsi radere.

In Sicilia il barbiere ti taglia i capelli anche qualche ora prima della tua sepoltura, quando sei già morto, con un fazzoletto bianco legato alla testa, disteso sul letto matrimoniale dove hai dormito per mezzo secolo. Lui viene silenzioso, accompagnato da una borsa di pelle, come fosse un dottore. Fa quel che deve, poi va via senza farsi pagare – se è anche un signore – o facendosi pagare cinque euro - se è sempre stato un tirchio.

In vita mia non ho mai cambiato barbiere. Ho più volte detto di volerlo cambiare, ma alla fine non ho mai tradito “Pippu u babberi”, nemmeno dopo un brutto taglio. La sola idea di varcare la soglia della bottega di un altro m’incuteva timore.

In Medio Oriente non ho avuto scelta, ho dovuto adattarmi come avevo fatto anni prima quando vivevo in Australia. Da Tel Aviv a Gerusalemme, da Ramallah ad Amman, da una poltrona da barbiere all’altra, ho avuto sempre la sensazione di scommettere sulla mia pelle, di giocare alla roulette russa e sperare di non beccare il proiettile nella rivoltella.

Molti colleghi occidentali, giornalisti e non, sono convinti che il barbiere di queste zone sia un’istituzione dal valore sociale pari a quella delle sale da tè, caffè e narghilè. Insomma, vige lo stereotipo secondo cui la bottega del barbiere mediorientale sia un luogo d’incontro e conversazione, un punto di riferimento per tutta la comunità cittadina, proprio come accade nel mio paese di origine o nei piccoli centri dell’Italia meridionale, della Spagna e della Grecia.

Io sono convinto del contrario. Proprio come per il farmacista – passato in poco meno di un secolo, da compositore di medicine a venditore di preservativi e pillole dimagranti – anche la figura del barbiere sta cambiando. Nelle grandi città europee la mutazione può dirsi completata. La sfida al cambiamento è oggi lasciata ai paesi non occidentali e alle cittadine più piccole.

Nelle grandi città d’Europa le botteghe dei barbieri europei si sono trasformate in boutique di bellezza e benessere per donne e uomini. I barbieri, non più avvezzi all’uso del rasoio, sono chiamati parrucchieri e alle volte artisti. Molti di loro si ricordano per eccentricità e fantasia, e con forbici, lacche e gel, riescono in acconciature belle e alla moda, ma se chiedi loro un tradizionale “barba e capelli”, t’invitano a rasarti a casa.

Gli unici barbieri in grado di “fare una barba” sono gli immigrati turchi, mediorientali e nordafricani delle periferie o dei quartieri ghetto. Nei miei viaggi in Europa ho spesso avuto bisogno di un barbiere capace di rasarmi la barba prima di un seminario o di una conferenza. Da Amsterdam a Bruxelles, da Vienna a Madrid ho dovuto sempre affidarmi ai barbieri immigrati, che con cortesia e professionalità non hanno mai rifiutato una barba.

A che punto è la trasformazione del barbiere nel Vicino Oriente? Dipende dal luogo e dalle sue caratteristiche socio-demografiche. Nei quartieri più ricchi e occidentalizzati delle capitali mediorientali troveremo le stesse boutique di bellezza che è possibile trovare in Europa. Nelle città più piccole, nei quartieri poveri, nei campi profughi e nei villaggi troveremo il tradizionale barbiere, punto d’incontro e conversazione per soli uomini. Infine, nei villaggi benedetti da una bellezza naturale o da un sito archeologico, e per questo sfruttati come una pezza dal turismo di massa, troveremo decine di umili botteghe di barbieri giunti lì da altri paesi arabi in cerca di una fortuna che tarda sempre ad arrivare.

Quando vivevo a Tel Aviv, abitavo in un palazzo del centro. Era un’area densamente abitata da borghesi occidentalizzati e, proprio come in Europa, mancavano i barbieri, sostituiti da artisti del capello in lussuose e ben illuminate boutique di benessere. In generale erano gestite da uomini e frequentate da donne vestite alla moda e disposte a pagare anche un biglietto da cento euro per un buon taglio.

Nella parte nuova di Amman, la capitale della Giordania, troviamo lo stesso tipo di boutique. L’unica differenza è la divisione dei sessi, imposta dalla legge dello Stato come riflesso di quella islamica.

Nelle società musulmane del Vicino e Medio Oriente, l’impossibilità e il divieto che un parrucchiere uomo possa acconciare i capelli di una donna, o viceversa, non deve sorprendere. In ambienti socio-politici più radicali, dove cioè ci sono governi islamisti, un parrucchiere sorpreso a tagliare i capelli di una donna rischia il carcere.

Per chi come me cerca un barbiere tradizionale, è necessario spostarsi nelle città più piccole, nei villaggi o nei campi profughi della zona, dove il barbiere continua a essere un’istituzione.

A Tel Aviv bisogna andare nelle viuzze di Giaffa o nelle strade di Addis Abeba – com’è chiamata la zona della stazione centrale degli autobus. Qui, la parte più povera della società israeliana, dei palestinesi-israeliani e dei rifugiati africani vive il quotidiano con gli stessi punti di riferimento con cui si viveva in passato: il dottore, il farmacista, l’imam, il prete, il rabbino e il barbiere.

È qui, lontano dai grattacieli del centro finanziario, che speravo di trovare il mio barbiere. Ne provai molti ma non mi sentii mai a mio agio. Ricordo che un giorno ebbi la sfortuna di cacciarmi nella bottega Avi, un barbiere ebreo dalle mani sottili e fredde come quelle di un morto. Il suo negozio, buio e umido, era diviso in due parti: da un lato il settore maschile, dall’altro quello femminile gestito dalla moglie Maya, una signora di mezza età dai ricci capelli biondi. Le fotografie appese ai muri mostravano colori sbiaditi, modelli resi anemici dal tempo e costretti ad acconciature anni 70.

Seduto sull’unica poltrona del settore maschile, mi guardavo intorno e avevo la sensazione che i mobili fossero coperti da una spessa patina di polvere e che quella bottega fosse un buco affacciato sulla strada.

In dieci minuti Avi tagliò i miei capelli. “Could you shave me now?”, gli chiesi imitando il movimento del rasoio con la mano. Lui mi guardò così male che lì per lì credetti di averlo offeso. Di malavoglia prese a spalmarmi la crema da barba sul viso. La spazzola cadde a terra. Lui esitò un istante, poi si chinò, la prese e continuò a spalmarmi la crema sul viso. Così, senza pulirla, senza sciacquarla. Non dissi nulla, non protestai. Feci finta di niente.

Quando pagai i 60 sheqel del servizio, cercai il mio viso riflesso allo specchio come per accertarmi di avere tutto in ordine. Il mio collo e le mie guance erano piene di tagli. Mi ero appena sottoposto alla peggiore rasatura di barba della mia vita, e non era nemmeno stata divertente o interessante, perché Avi non parlava, ma non faceva altro che ascoltare la radio e commentare le notizie con n impotente e malinconico “umm”.

Qualche mese dopo andai a Giaffa da un barbiere arabo dal cognome turco, probabilmente il discendente di un soldato o funzionario Ottomano. Ahmed, questo il suo nome, si presentava bene e vestiva pure il camice bianco dei tempi in cui a Giaffa dormiva Napoleone.

Ahmed non parlava una parola d’inglese e con lui dovetti sforzare il mio arabo e il mio ebraico. Era molto vecchio e la sua memoria non era delle migliori. Ogni cinque minuti riponeva le forbici sul tavolino e, guardandomi dallo specchio, mi chiedeva: “Che taglio devo fare?”.

Mentre Ahmed mi radeva, un uomo di mezza età ci faceva compagnia. Stava seduto sul vecchio divano marrone posto vicino l’ingresso della bottega e se non fosse stato un cliente in attesa del suo turno, avrei pensato che fosse lì giusto per fare conversazione.

La bottega di Ahmed non era male. Sulla parete principale, sopra lo specchio, era attaccato un poster della Cupola della Roccia, mentre la parete opposta era coperta da centinaia di copie di القدس‎, il quotidiano palestinese Al-Quds.

Ahmed sapeva utilizzare bene forbici e rasoio, ma non aveva più lo smalto che potevo pensare avesse avuto un tempo. Ahmed con me parlava più con gli sguardi che con le parole, e quando gli chiesi se fosse vero che prima della Guerra del 1948 a Giaffa viveva un farmacista italiano, lui ignorò la mia domanda e mi chiese: “Le taglio le basette?”.

Un altro interessante esempio mi è stato offerto a Petra, durante il mio primo viaggio in Giordania. Petra, città dei Nabatei conquistata dai romani e rapidamente caduta nell’oblio, è stata riscoperta solo nel diciannovesimo secolo ed è nota ai più per l’episodio di Indiana Jones in cui Harrison Ford è alla ricerca del Santo Graal.

Oggi è un importante centro archeologico visitato quotidianamente da migliaia di persone. La popolazione beduina, che per secoli ha abitato le case scavate nella roccia che caratterizzano il luogo, è stata obbligata a lasciare la città e sistemarsi in piccolo villaggi prefabbricati ai lati del centro archeologico.

Qui sono nate delle vere e proprie cittadine che sfruttano il flusso di turisti come propria linfa vitale. El-Gi è uno di questi. Oltre ad avere molti alberghi e ostelli, El-Gi ha anche numerosi barbieri, le cui botteghe sono situate una dopo l’altra in una delle strade più scoscese della cittadina.

Una sera, prima della partenza per Madaba e Amman, il proprietario dell’ostello mi portò nella bottega di Abdullah, lo schiavo di Allah (dal significato in Arabo del nome). Abdallah era un egiziano di 29 anni giunto nella minuscola El-Gi per sbarcare il lunario tagliando capelli e barbe a turisti e locali.

La povera e malconcia bottega da barbiere non gli apparteneva. L’affittava a caro prezzo dal barbiere originario, un vecchio giordano a riposo dall’attività. Abdallah parlava inglese ma non sembrava felice di farlo. Il suo volto era stanco e svogliato, trasmetteva tristezza, disperazione. Erano le nove si sera ed io ero il suo primo cliente. Il suo taglio fu rapido, quasi istantaneo. Mi chiese tre dinari giordani (circa tre euro) e prima di prenderli aveva già lasciato la bottega per andare a parlare con il ragazzo del piccolo supermercato di fianco.

Trovai il mio barbiere a Gerusalemme, in un caldo giorno di Novembre. La mia vita era in bilico e per dare una svolta netta decisi di tagliarmi i capelli a zero. Un amico tedesco mi accompagnava per testimoniare ai posteri. Dopotutto erano 15 anni che non li tagliavo così corti.

Quella mattina, Gerusalemme odorava di pane da poco sfornato e di cipolla appena intrecciata. Nei pressi del New Gate, proprio al centro del quartiere cristiano, entrammo nella bottega di Muhammad.

Muhammad è palestinese, abita a Gerusalemme e adora la vita notturna di Tel Aviv. “Ci vado quasi tutti i fine settimana con le mie figlie”, dice in un inglese dal forte accento arabo.

Muhammad ha 37 anni, è musulmano ed è figlio di un barbiere musulmano e di una fornaia cristiana. Insieme al fratello lavora nella bottega del padre, il quale assiste al lavoro dei figli stando seduto sul divano di tela in assoluto silenzio.

Nonostante l’Islam, le pareti della bottega erano addobbate da immagini cristiane: Santa Chiara, Padre Pio, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI. C’era anche un grosso crocefisso greco-ortodosso. “È per onorare la buon’anima di mia madre, che Allah la protegga; ma anche per tranquillizzare i turisti, dopotutto – ammette Muhammad – qui siamo nel cuore del quartiere cristiano”.

Muhammad sa come usare forbici e rasoio e come intrattenere i clienti: non si limita a farli sentire tra amici, diventano davvero suoi amici.

Buona parte delle persone più influenti delle comunità della città vecchia di Gerusalemme sono suoni clienti. L’ultima volta che ci sono andato, accanto a me sedeva uno dei gerarchi ecclesiastici più in vista della chiesa greco-ortodossa. Il fratello di Muhammad gli stava sistemando la barba.

Muhammad fa bene il suo mestiere e non mi ha mai tagliato o lasciato scontento. Prima ancora che io mi sieda sulla poltrona, mi serve un bicchierino di tè arabo, e mentre opera, mi aiuta a praticare l’arabo. Conversiamo su tutto, anche su dove mangiare bene a Gerusalemme e su dove comprare il pesce fresco al porto di Giaffa.

Muhammad sta vincendo la sfida contro ciò che gli artisti del capello chiamano “modernità”. Quando gli chiedo perché molti dei suoi colleghi non rasano la barba ai loro clienti, lui risponde: “Non so perché non lo fanno, ma io sono un uomo e conosco le esigenze degli uomini. So che la formula ‘barba e capelli’ è un piacere che non deve essere perso e che la mia bottega ha anche uno scopo sociale. Essere consapevole di questo mi rende orgoglioso”.

Testo: Alessandro Di Maio
Foto: Carlos Lorenzo
Gerusalemme, 18 Gennaio 2012