04.05.2011 Alessandro Di Maio

A domanda rispondo. La situazione in Medio Oriente.

Come alcuni di voi sapranno, ultimamente ho speso qualche settimana in Europa. Sono stato nell’Austria mitteleuropea a seguire un evento delle Nazioni Unite, poi in Belgio per assistere all’esibizione della mia mostra fotografica su Israele e Palestina, e poi sono tornato in Sicilia, nella mia Sicilia, tra parenti, amici e colleghi.

Infine, come di solito, un traghetto e un treno mi hanno portato in Italia per il Festival Internazionale del Giornalismo. Anche lì, ho incontrato i colleghi di una vita, persone innamorate del giornalismo e amici interessati alla mia esperienza in Terra Santa.

Durante le conversazioni intavolate, mi hanno tutti chiesto quale fosse la situazione mediorientale e quali le conseguenze delle rivolte arabe in Israele e nei territori palestinesi. Sono stato invitato a descrivere le terre tra il Mar Mediterraneo e il deserto, a raccontare le storie degli uomini e delle donne che vi abitano, a rivelare situazioni particolari, dettagli di vita dall’altra sponda del Mare Nostrum.

Alle domande ho risposto parzialmente e mal volentieri. In quei giorni, infatti, il malumore dovuto a piccoli problemi di salute mi assaliva, rendendomi ombroso e poco disponibile.

Oggi cerco di rimediare con questo post, descrivendo la realtà di questa fetta di Vicino Oriente per come la vedo io. Le cose da dire sono tante, e trovo assai difficile scriverle senza correre il rischio di sembrare banale o di beccare un titolo da chi ama etichettare.

Il poeta e scrittore americano Charles Bukowski un giorno disse che “non è difficile scrivere poesie, perché il difficile è viverle”. Per me, al momento, vale l’opposto: non faccio fatica a vivere in una poesia fatta di ambienti ricchi di contrasti e contraddizioni, in una poesia abitata da persone che amano e odiano in modo straordinario e incomprensibile, ma, a differenza di Bukowski, trovo difficile scrivere la mia poesia mediorientale.

Così utilizzo il linguaggio e il ragionamento tecnico e asettico imparato sui manuali di Scienze Politiche e affinato dai saggi storici, geopolitici e strategici letti nelle ore quotidiane di calura, quando l’afa della costa del Mediterraneo orientale impregna tutto e rende appiccicose anche le pagine dei libri.

Le recenti rivolte arabe, la catastrofe nucleare giapponese e la Guerra in Libia hanno estromesso il conflitto israelo-palestinese dalle prime pagine dei maggiori giornali internazionali. E’ un’assenza temporanea, comprensibile, probabilmente giusta - visti i numerosi conflitti che feriscono le terre più vergini del mondo, e le tante guerre dimenticate che uccidono i cuori e le menti di uomini e donne che nessuno ricorderà mai.

Tuttavia, l’allontanamento del conflitto dalle cronache quotidiane non deve far pensare a una sua risoluzione o al miglioramento della situazione sul campo: se ho imparato bene qualcosa in questi primi due anni passati nel Vicino Oriente, è che qui non si segue mai una linea retta e le cose non sono mai come appaiono in Europa.

I processi politici, i cambiamenti sociali e le escalation di violenza, vivono alti e bassi più simili alle regole di borsa che alle volontà dei tanti che popolano queste terre. Eventi insospettabili e non ricercati possono avvenire in modo repentino e inaspettato, conducendo al “ripostiglio dell’impossibile” (o del “non al momento possibile”) ciò che da anni è perdutamente bramato dalla popolazione locale.

Il rischio di una guerra è sempre costante. Se da una parte si gioca con i numeri e si ritiene che il 2012 sarà un anno di guerra, perché statistica vuole che le ultime guerre regionali siano scoppiate ogni tre anni - Seconda Intifada (2000-2003), Terza Guerra del Libano (2006) e Piombo Fuso (2009) - è anche vero che voci e rumori hanno spesso erroneamente pronosticato guerra per l’anno futuro: nell’estate del 2009 si temeva una quarta guerra con i libanesi, nel 2010 si parlava di una guerra imminente perché – si diceva - “non si erano mai visti tanti giovani di riserva chiamati alle armi”.

Poi ci sono i palestinesi, sempre pronti a denunciare di subire perennemente la guerra e di vivere nelle prigioni aperte più grandi al mondo.

La verità dove sta? Qual è? Non so, non chiedetemelo. Qui la verità non è mai tale. Assume contorni astratti e la sua esistenza crea altre verità. Tuttavia, ritengo che da entrambe le parti ci siano gruppi di persone interessate a mantenere in vita il conflitto e lo Status Quo, per un proprio guadagno politico o economico.

Il processo di pace - fermo agli Accordi di Oslo e parzialmente obsoleto per i cambiamenti sul terreno – non è un processo e nemmeno una pace. Nel settembre 2010 l’Amministrazione Obama aveva assicurato un accordo entro un anno, ma lo slogan “Yes, we can” funziona solo una volta e solo negli Stati Uniti.

Oggi la rappresentanza internazionale palestinese gioca da sola e punta in alto: bypassare gli israeliani e farsi riconoscere Stato dalle Nazioni Unite, con l’aiuto dei paesi arabi e di tutti quelli che negli ultimi mesi hanno riconosciuto, o hanno promesso di riconoscere, l’esistenza dello Stato Palestinese entro i confini pre-1967.

Questa strategia spiega i recenti contatti tra le maestranze di Fatah e Hamas - i due partiti-movimenti politici più forti e influenti nel panorama politico palestinese – per venire a un accordo interno che porti alla formazione di un governo palestinese di unità nazionale.

Tuttavia, se un governo di questo tipo ha il pregio di essere espressione non più di una minoranza, ma della stragrande maggioranza dei palestinesi, esso porta con sé il seme della discordia, perché esso [il governo] sarebbe formato non soltanto da membri di Fatah, ma anche da uomini appartenenti a Hamas.

Ciò è un problema perché, a differenza di Fatah, Hamas è un’organizzazione terroristica che non riconosce la legittimità a esistere dello Stato di Israele, e che progetta, finanzia e realizza attentati terroristici, lanci di razzi e missili contro civili israeliani.

Ora, poiché Israele non tratterà mai con gruppi che non riconoscono la sua esistenza, si comprende come un eventuale governo Fatah-Hamas possa essere un ostacolo ai colloqui diretti con Israele, e come una situazione del genere possa portare a quell’esasperazione che negli anni passati ha dato il via alla prima e alla seconda Intifada.

Uno scenario di questo tipo metterebbe fortemente a rischio le conquiste realizzate nonostante tutto e tutti, in questi anni. Parlo del ritiro unilaterale israeliano da Gaza, della suddivisione amministrativa della Cisgiordania, della distensione nei checkpoint israeliani e, soprattutto, degli accordi commerciali stipulati tra Israele e ANP, che hanno garantito alla Cisgiordania una crescita economica annuale simile a quella cinese (8%).

Tutto ciò va letto insieme al recente cambiamento degli equilibri mediorientali. Prima di tutto la Turchia. Lo scontro diplomatico Ankara-Tel Aviv, successivo all’assalto israeliano alla Flotilla diretta a Gaza, lo scorso Luglio, ha reso palese la strategia geopolitica turca: passare da Stato alla mercé dell’Occidente a candidato alla guida delle aree mediorientale e caucasica.

La Turchia è una potenza regionale che fa parte della NATO e che sa di non poter entrare in Europa. Oggi cerca di ottimizzare il proprio status sfruttando posizione strategica e caratteristiche culturali, e lasciando un piede in Europa, , uno in Medio Oriente e uno nel Caucaso.

L’assalto israeliano alla Mavi Marmara non ha trasformato la Turchia in un nemico di Israele, ma, al contrario, ha dato la possibilità agli israeliani di comprendere la necessità di aggiornare i reciproci rapporti secondo le nuove mire strategiche turche.

Poi c’è l’Egitto. Cacciato Hosni Mubarak, il paese si trova in un limbo governato da una giunta militare, chiamata all’organizzazione delle elezioni e alla costruzione della prima grande democrazia araba.

Dalla fine del regime del rais, sono stati sufficienti pochi giorni per comprendere che l’Egitto non sarebbe più stato il grande alleato arabo di Israele. La giunta non ha saputo (o non ha voluto) opporsi alla pressione degli ex rivoltosi, impegnati a chiedere la revisione degli accordi di pace con Israele.

La frontiera con la Striscia di Gaza è diventata ancora più permeabile al passaggio di armi - tra cui razzi e missili - utilizzate dai miliziani palestinesi della Striscia per attaccare le cittadine israeliane poste al confine.

Secondo il Centro Informativo su Intelligence e Terrorismo, dall’inizio dell’anno, Israele ha subito il lancio di quasi quattrocento tra missili e razzi di mortaio. Numeri e attacchi che potrebbero aumentare drammaticamente se, come hanno recentemente affermato le autorità egiziane, il valico di Rafah, tra Egitto e Striscia di Gaza, sarà lasciato permanentemente aperto e senza i controlli di sicurezza congiunti tra Israele ed Egitto.

In più, per la prima volta dalla Rivoluzione iraniana del 1979, autorità egiziane hanno consentito a navi militari iraniane l’attraversamento del Canale di Suez e la navigazione nel Mar Mediterraneo.

Una provocazione? La rivendicazione di un diritto? Chiamatela come volete, ma l’attraversamento del canale marittimo non sarebbe un problema per alcuno se l’Iran non fosse governato da un regime che propaganda la distruzione dello Stato di Israele, finanziando e appoggiando organizzazioni terroristiche (es. Hamas e Hezbollah) contro lo stato ebraico.

Le rivolte arabe non si sono fermate né Tunisi e tantomeno al Cairo: hanno interessato numerosi paesi, ancora oggi limitati da governi autoritari, stati di polizia e monarchie che puniscono la sola critica al Re.

In molti casi, gli esiti delle rivolte non sono di portata tale da influenzare direttamente la parte di Vicino Oriente dove vivo e lavoro. La stessa guerra in Libia non ha un effetto immediato (o di breve termine) sul conflitto israelo-palestinese. Ce l’ha, invece, la Siria, altra grande protagonista mediorientale.

Da sempre contrapposta a Israele, da anni influenzata dall’Iran, la Siria è un paese dalle mille possibilità, governato malamente e sottoposto all’immeritato regime di Bashar Al Assad, che ha prima bollato le proteste come “provocazioni sioniste organizzate dal Mossad” e poi ripiegato, definendole delle “sommosse organizzate da gruppi salafiti”.

Sono dell’opinione che la stragrande maggioranza dei rivoltosi siriani sia costituita da giovani desiderosi di democrazia, libertà e diritti, proprio come i loro coetanei egiziani, tunisini, libici e yemeniti, e se estremisti e terroristi cercassero di prendere parte alle rivolte, per sfruttarle e rafforzare le loro organizzazioni, rimarrebbero pur sempre una piccola minoranza.

Su questo punto ognuno ha il diritto di farsi un’idea, anche perché - come ho scritto in precedenza - in Medio Oriente, purtroppo o per fortuna, non esiste mai una sola verità; ma ritengo che chiamare in causa il Mossad o il “complotto sionista mondiale” o qualsiasi altro fattore esterno, significhi ancora una volta, per il governo di un paese arabo, non farsi carico delle responsabilità politiche del proprio operato.

Di questo ho la conferma da Ferras, un amico e fotografo siriano di etnica curda e religione islamica. Mentre in Siria iniziavano le proteste e le uccisioni, in quelle piazze calpestate dagli stivali dei soldati Ferras ha perso un cugino, “ammazzato come un cane dalle truppe di Assad e dalle guardie iraniane venute apposta” – dice.

Lui non crede alle storielle sul Mossad. “Sono solo scuse. La verità – afferma – è che per sedare le rivolte il governo non ha avuto scrupoli a mandare i carri armati e uccidere centinaia, forse migliaia, di persone”.

Non è possibile pronosticare il risultato della rivolta siriana. Israele tace, guarda in silenzio, sperando – così dice - nel processo di democratizzazione del Medio Oriente e temendo che una democratizzazione parziale possa estromettere eventuali partner con cui avviare trattative di pace e affermare gruppi radicali o, nella peggiore delle ipotesi, portare al potere regimi ancora più dispotici e pericolosi.

Il risultato delle rivolte in Siria è importante anche per Israele e per i territori palestinesi perché vi è una frontiera in comune, perché la Siria potrebbe variare la propria posizione diplomatica rispetto all’Iran e perché, anche se con Assad i rapporti tra Israele e Siria non si sono mossi di un millimetro, l’impressione essenziale è che egli, più dei suoi predecessori, sia disposto a colloquiare diplomaticamente con USA e Israele per un accordo di scambio pace-Golan.

Anche i palestinesi sono stati influenzati dalle rivolte arabe. Alle settimanali manifestazioni contro l’occupazione israeliana e la barriera di separazione (meglio conosciuta come 'il muro'), si sono aggiunti i c.d. 'giorni della rabbia': manifestazioni di solidarietà ai rivoltosi dei paesi vicini e proteste contro le autorità palestinesi che li governano.

In Cisgiordania si rimproverano la corruzione dell’ANP e il “servilismo” nei confronti di Israele; a Gaza si critica il dispotismo del regime di Hamas, ma, in entrambi i territori, le manifestazioni non sono state autorizzate, e se nella Striscia di Gaza esse sono state soffocate con la violenza, in Cisgiordania i manifestanti sono stati tanto osteggiati dalla polizia palestinese che, in alcuni casi, hanno preferito manifestare a Tel Aviv, sotto l’ambasciata egiziana.

“Manifestare a Tel Aviv perché a Ramallah non si può, è il colmo per noi palestinesi – afferma Majd, un’amica palestinese ritrovata durante una manifestazione di fronte all’ambasciata egiziana a Tel Aviv. Sembrerebbe che gli israeliani ci riservino [a noi palestinesi] più libertà di quanto facciano i politicanti dell’ANP”.

In questi mesi ho avuto modo di analizzare la società palestinese e rendermi conto della sua debolezza. Il riscontro più grande l’ho avuto a inizio gennaio 2011, quando le autorità israeliane portavano a termine la demolizione dello Shepherd Hotel, a Gerusalemme Est.

D’importanza storica per i palestinesi, l’hotel è stato per anni utilizzato dalla propaganda palestinese allo scopo di denunciare la politica demografica e urbanistica di Israele a Gerusalemme Est, ma, al momento della demolizione, a protestare c’erano una trentina di pacifisti israeliani, una decina di giornalisti e non più di tre palestinesi, tutti, tra l’altro, famigliari dei proprietari.

La maggior parte dei palestinesi guardava incuriosita dai finestrini degli autobus e delle macchine che passavano davanti all’edificio durante la demolizione. Nessuno ha protestato, nessuno ha detto “no”, nessuno ha solidarizzato con i proprietari dell’edificio demolito.

Stessa cosa a Bil’in, un villaggio di poche case nella Cisgiordania centro-occidentale. Ogni venerdì il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina organizza una manifestazione contro la barriera di separazione innalzata poco distante dall’esercito israeliano.

A partecipare sono tutti stranieri: spagnoli, italiani, tedeschi, danesi, ci sono anche degli israeliani. I palestinesi sono pochissimi, in genere bambini pronti a lanciare pietre contro i soldati.

Vicino al luogo delle proteste ci sono alcune case. Famiglie palestinesi vivono in silenzio, senza partecipare alle proteste, senza volerne sapere nulla. Sono frustrati, hanno paura, sanno di perdere in ogni caso.

Per anni hanno creduto di poter contare sull’aiuto dei paesi arabi, salvo poi scoprire di essere disprezzati e costantemente strumentalizzati per i loro interessi strategici.

Hanno creduto di poter utilizzare la violenza per vincere Israele, ma hanno raccolto povertà, morti e disperazione. La determinazione israeliana a difendere uno Stato tornato a vivere dopo duemila anni, non è un mistero per nessuno. Così a ogni attacco palestinese, a ogni bomba, a ogni kamikaze, a ogni missile lanciato da Gaza ha corrisposto e corrisponderà sempre la reazione israeliana.

Con la fine della Seconda Intifada hanno creduto negli accordi e nella moderazione, nella capacità politico-diplomatica degli uomini che oggi compongono l’ANP, ma la frustrazione quotidiana dovuta alla lentezza del processo di pace e alla crescita delle colonie israeliane, porta i palestinesi più capaci, quelli che hanno studiato, che hanno viaggiato e che conoscono le lingue, a criticare aspramente l’ANP e le vie moderate, per appoggiare organizzazioni radicali e non disposte al dialogo con Israele.

Qui, nella terra di congiunzione tra Asia, Europa e Africa, tensione e incertezze aumentano progressivamente. Tenete presente tutto quello che ho appena scritto, considerate le notizie che mi sono sfuggite e quelle che per tempo e spazio non ho scritto e, infine, aggiungete: la bomba fatta esplodere lo scorso Marzo in una fermata dell’autobus a Gerusalemme; la famiglia di coloni israeliani ammazzata a coltellate nella colonia di Itamar, vicino Nablus; i nuovi missili di media gittata arrivati a Gaza e sparati dalla Striscia contro le cittadine israeliane; le navi, gli aerei e i camion carichi di armi che israeliani, egiziani e turchi hanno intercettato a mezza strada tra Iran-Siria e Gaza; la nuova Flotilla in arrivo nella Striscia, e le recenti uccisioni dell’attore arabo-israeliano e attivista filo-palestinese Juliano Mer Khami, avvenuta a Jenin per mano di gruppi estremisti palestinesi, e quella dell’attivista italiano filo-palestinese, Vittorio Arrigoni, avvenuta a Gaza anche questa per mano di un gruppo estremista palestinese.

A tutti quelli che mi hanno chiesto quale fosse la situazione in Medio Oriente e quale la mia opinione; a tutti quelli che non hanno avuto risposta; a tutti quelli cui ho laconicamente replicato “c’è caldo”: ecco, questa è la mia risposta, non completa, non esaustiva, ma quantomeno, spero, soddisfacente.

Post di Alessandro Di Maio.