23.02.2011 Alessandro Di Maio

Intervista allo scrittore Erri De Luca

Uno degli ospiti più attesi della 25ma edizione del Festival Internazionale del Libro a Gerusalemme è stato lo scrittore italiano Erri De Luca. Atteso non soltanto dai lettori israeliani, ma anche da un cospicuo numero di italiani residenti nella regione e da studenti provenienti da vari paesi. La presenza dello scrittore De Luca ha dato vita ad un’intervista che qui vi propongo.

Nella maggior parte dei suoi libri c’è sempre un protagonista ebreo. Come mai? I suoi racconti sono basati su conoscenze reali, della tua vita, o sono frutto della sua immaginazione?

Alla mia età non si fa più tanta differenza tra realtà e immaginazione. All’inizio tutte le mie storie hanno un’esperienza fisica e sono passate attraverso il mio corpo prima di arrivare alla mia testa.

Io sono di Napoli, un’origine che non può escludere nessun sangue del Mediterraneo. In una sua poesia Borges scrive ”chi mi dirà se non stai nel labirinto dei miei sangui Israel”. E’ così è per me. Sono di Napoli, un concentrato di miscugli del Mediterraneo.

Qual è il motivo che la spinge ogni mattina a leggere la Bibbia? E perché sta imparando la lingua Yiddish?

Molto dipende dal fatto che sono stato per molti anni un operaio. Ho fatto per molti anni questo mestiere fisico. Sentivo che tutta la mia giornata veniva portata via da quel lavoro, dalla mia forza lavoro venduta per salario.

Allora avevo bisogno al mattino, prima di andare a lavorare, di una caparra che mi salvasse la giornata. Doveva essere una caparra molto robusta per stare a contrappeso di quella giornata, e la più forte caparra che ho trovato era l’ebraico antico della Scrittura Sacra.

Non sono credente, non posso rivolgermi alla divinità. Però quella divinità ha lasciato la sua traccia dentro quelle lettere dell’alfabeto ebraico. Lì c’è una temperatura, un rilascio di energia nell’impatto tra cielo e terra che resiste all’usura del tempo.

Con lo Yiddish è diverso. Impararlo è l’unica cosa che può fare uno venuto dopo. Per approfondire lo Yiddish ho imparato il tedesco e il russo. Alla fine ho scoperto che lo Yiddish assomiglia al napoletano.

Ai nazisti non è riuscito di distruggere un intero popolo, ma una lingua sì. Io credo alla resurrezione delle lingue, non dei corpi. Credo alla resurrezione dello Yiddish e penso che parlare, cantare, leggere Yiddish è dare torto alla Storia.

Lo Storia non è una maestra di vita, ma una donna di facili costumi che va vestita con il più forte. Per molto tempo del Novecento la Storia è stata vestita dai nazisti e dai fascisti. Allora imparare lo Yiddish è dare torto alla storia.

Oggi pensavo a un proverbio Yiddish. Lo dico tanto per spiegare perché mi è simpatico: “è bene imparare a radere sulla faccia di un altro”.

Parliamo del suo ultimo libro tradotto in ebraico “Il giorno prima della felicità”. Ha mai vissuto un giorno così, prima della felicità?

Nessun giorno di felicità così solenne è così annunciato. Mi capita spesso di essere felice per dei brevi secondi. In questi giorni la mattina sto leggendo il Salmo 119. Così sono felice quando lo leggo.

Che tipo è stato da ragazzo?
Sono nato vecchio, muto e contento di stare in una stanza piena di libri che mi facevano da scudo. Non saremmo diventati amici, dovevo invecchiare un po’.

Che cosa è rimasto in lei dell’idealismo radicale di un tempo, di quando faceva parte di Lotta Continua?

Il 1900 è stato il secolo delle rivoluzioni. Con questo strumento politico delle rivoluzioni sono cambiati i rapporti di forza nel mondo tra oppressori e oppressi. Sono state rovesciate tirannie e imperi coloniali.

Noi siamo stati, nella nostra gioventù, contemporanei di tutte le lotte armate del mondo. Lo Stato di Israele si è fondato sulla rivoluzione. L’onore di Israele si è formato sulla resistenza armata. La mia generazione è stata rivoluzionaria perché questo era l’ordine delle cose. Allora sono stato leale nelle ragioni della mia gioventù.

Si scrive per lavorare?

Per me scrittura è stato il contrario del tempo di lavoro, il tempo della festa. Era quel tempo alla fine della giornata che voleva mettersi contro tutto il tempo venduto.

Un detto dice che “dalla bocca del leone vengono salvati i rimasugli”. Ecco, dal divoratore della tua giornata non si salvano altro che rimasugli.

Per me questo è la scrittura, quei pezzetti salvati dalla bocca del leone. Non servono a niente, non possono essere utili a mangiare, ma servono a giustificare il pastore che non si è fatto togliere tutta la bestia.

Per me la scrittura ha questo valore aggiunto, della forza del puntiglio di resistenza all’usura della giornata. Questo non può essere mai per me lavoro.

Quali sono gli scrittori che ama?
Non amo gli scrittori, amo le scritture, il loro prodotto.

Nel libro “Il giorno prima della felicità”, scrive che i giorni di sole fanno paura. Perché?

No, è quello che dice l’ebreo nascosto nel nascondiglio. Dice che i giorni di sole sono quelli in cui succedono le cose peggiori e che gli assassini non vanno in giro quando piove.

Perché i suoi libri sono sempre brevi, corti?

Perché uno scrittore con le sue pagine è ospite del tempo di un lettore. E’ un ospite deve andarsene finche’ è ancora desiderato.

Sono stato molto tempo nella mia vita ospite nelle case degli altri e ho imparato il tempo giusto di lasciarle. Sono rimasto ospite anche adesso che sono il proprietario della mia casa. Quando torno da un viaggio e entro nella mia stanza dove non c’è nessuno chiedo il permesso, ancora adesso.

A cosa si deve la sua passione per il trekking? Perché le piace scalare le montagne?
E’ legata allo stupore di fronte la bellezza. Finche’ riesco a stupirmi della bellezza ho l’entusiasmo per scalarle.

Da napoletano ho imparato che la bellezza non è una decorazione. Noi napoletani ci siamo accampati sotto un vulcano catastrofico e sopra un suolo sismico. Sappiamo che quella bellezza è una forza compressa che può esplodere da un momento all’altro.

Anche questo aiuta a essere nel mondo uno di passaggio, un ospite. In montagna sono un ospite di quella bellezza che è pronta a cancellarmi. Non è lì per accogliermi a braccia aperte.

Le cime non si conquistano, le cime si raggiungono dopo aver sfiorato la superficie e alla fine si calpestano.